lunedì 21 luglio 2008

contro la repressione



il 9 Luglio, al Palazzo Comunale di Spoleto è stato presentato il libro: "Sono Michele detto Mec, come direbbero i giudici eh eh.", curato dal Comitato 23 ottobre.
Tanta gente e nomi conosciuti, come gli ex assessori del Comune di Spoleto Ragni e Galiotto, Consiglieri Comunali di varie città dell'Umbria, giornalisti che hanno speso una vita per l'informazione nella nostra città e non solo come Alfonso Marchese, televisioni nazionali come RAI 3 e LA 7. Ad illustrazione del contenuto del libro, che racconta i 9 mesi dell'operazione Brushwood, rendiamo pubblica la prefazione all'opera, scritta da Lucio Manisco storico cronista RAI dagli Stati Uniti, nonchè ex parlamentare europeo.
Comitato 23 Ottobre



UN VULNUS INTOLLERABILE AI DIRITTI PIU’ ELEMENTARI DEI CINQUE INQUISITI.

di Lucio Manisco


La lettura di questi saggi e delle molte testimonianze sui capi di accusa e sulla protratta detenzione del giovane Michele Fabiani e di quattro altri non meno giovani residenti di Spoleto suggerisce allarmanti analogie con quanto sta avvenendo nella repubblica stellata dopo il 9/11 soprattutto con il “Patriot Act”, la legge emergenziale anti-terrorismo che in termini di “indiscriminata applicabilità” rivela singolari analogie con gli articoli 270 e 270 bis del nostro Codice Penale. Del “Patriot Act” abbiamo discusso più volte dal 2001 ad oggi con il saggista e letterato statunitense Gore Vidal non solo per l’abrogazione de facto dello habeas corpus e del “Bill of Rights” ma su un piano specifico e personale come minaccia ai diritti ed alla libertà dello scrittore famoso in tutto il mondo e di personaggi ben più modesti come chi scrive durante le sue frequenti visite negli USA. Si è convenuto che entrambi potremmo andare a finire a Guantanamo per aver denunziato l’incostituzionalità dei provvedimenti del regime bushevico, di aver sostenuto la necessità di ricorrere alla procedura del “citizen’s arrest” nei confronti del Presidente e del suo vice-presidente e, data la pavidità del Congresso che non ricorre allo “impeachment”, di altre iniziative non consentite dalle preesistenti leggi, per fermare a qualsiasi costo un’Amministrazione che sta trascinando la superpotenza e il mondo intero nel baratro senza fondo di una grande guerra mediorientale e della devastazione ambientale del pianeta.
“Sono Michele, detto Mec, eh eh!” ci ha ora convinto che in Italia non c’è bisogno del “Patriot Act” per spedire il sottoscritto e molti altri a tener compagnia a Fabiani nel carcere di Sulmona: basta un’interpretazione estensiva del 270 bis e del 270 che risale al codice Rocco (poi esteso ma mai applicato compiutamente al reato di ricostituzione del partito fascista) in quanto sia l’uno che l’altro articolo del C.P. sotto i titoli di “Associazioni con finalità di terrorismo” e “Associazioni sovversive” intendono la “partecipazione” a tali associazioni anche in termini di promozione di “disegni eversivi degli ordinamenti democratici”. La “promozione” per non assumere il significato di reato ideologico o di opinione, non ancora previsti dal Codice Penale fino a quando non verrà modificato il mandato costituzionale, implica una diretta, consapevole, conseguente perpetrazione di altri reati. Il sottoscritto ad esempio ha promosso e fatto approvare dal Parlamento Europeo nel 2004 una risoluzione che condannava l’allora presidente del Consiglio Silvio Berlusconi per chiaro e manifesto attentato alla libertà di stampa nel nostro paese, per violazione dell’art. 21 e di altri articoli della Costituzione, per controllo monopolistico ed uso ed abuso dei mass media a fini personali ed antidemocratici. Il sottoscritto ha quindi incontrato quel signore che forse ispirato dall’iniziativa dell’assemblea di Strasburgo ha lanciato un treppiedi fotografico sul collo del Presidente del Consiglio. Si deve alla mancanza di conseguenze per l’incolumità di Berlusconi ed alla sua rinunzia ad adire le vie legali contro chi lo aveva colpito, ma anche alla disattenzione del magistrato competente se chi scrive non è incorso nei rigori del 270 bis per avere promosso un attentato alla vita del Presidente del Consiglio.
Molto più zelanti nei confronti di Michele Fabiani e degli altri inconsapevoli inquisiti dell’operazione “Brushwood”, il G.I.P, i ROS e il Tribunale del Riesame che con laboriosa e immaginifica cura hanno attribuito ai cinque spoletini altri indizi di reati derivati per l’appunto dalla predicazione anarchica dell’allora diciassettenne “filosofo” Fabiani. Si tratta a dire il vero di pre-indizi e cioè di sospetti che possono a volte motivare un’azione investigativa ma che non possono trasformare in gravi indizi di reato le “affinità lessicali” e le “alterazioni semantiche” riscontrate dalle indagini, come ha invece fatto il Tribunale dell’esame in base all’art. 310 del Codice di Procedura Penale, all’unico fine di prolungare la detenzione di due inquisiti presumibilmente innocenti nel supercarcere di Sulmona. Nel suo saggio “Sperimentiamo l’anarchia” il Fabiani ancora minorenne aveva elaborato la teoria secondo cui la scelta di un’azione anarchica, violenta, non violenta, di resistenza civile o dichiaratamente e fattivamente rivoluzionaria, può essere determinata ed operata solo in base alle circostanze storiche, sociali ed ambientali in cui essa maturi.
Può apparire paradossale ma è più che giustificato ritenere che la teoria “filosofica” di un diciassettenne sia stata non si sa quanto inconsapevolmente tradotta in azione giudiziaria dalla magistratura di Perugia: le conseguenze più estremistiche della lotta al terrorismo che su modello USA colpisce ogni forma di dissenso, l’intrattabilità di un fenomeno marginale spontaneistico e quasi sempre dimostrativo come quello degli “anarchici insurrezionalisti”, e soprattutto il massiccio condizionamento dell’opinione pubblica ad opera dei mass media nostrani, i peggiori in assoluto per servilismo e irresponsabilità dell’intero mondo occidentale, sono in ultima analisi le “circostanze storiche, sociali ed ambientali” che possono avere determinato le scelte operative delle autorità inquirenti. Siamo certi che i pre-indizi - sospetti e l’assenza totale di prove porteranno nella fase processuale all’assoluzione degli inquisiti; resta il vulnus intollerabile inferto alla presunzione di innocenza e ai diritti più elementari di due dei cinque giovani dalla loro prolungata detenzione a Perugia e nel supercarcere di Sulmona.
E poi in questo caso non ci sembra appropriata l’ironica battuta secondo cui nella sua maestosa equanimità la legge colpisce sia il ricco che il povero rei di dormire sotto i ponti della Senna: nessun magistrato si è sognato di aprire un fascicolo su Bossi pronto con i suoi 300.000 “fucili caldi” a marciare su Roma mentre un vero e proprio accanimento giudiziario è stato posto in atto contro dei giovani a cui non è mai stato contestato il possesso di cinque fionde calde, fredde o a temperatura di ambiente.
Un’ultima nota personale a proposito dei mass media nazionali e di un quotidiano della provincia romana a cui ho collaborato per diversi anni fino al 1984 e che si è ora distinto nella criminalizzazione perversa ed infondata dei cinque, spesso al di là delle stesse accuse del pubblico ministero. A differenza di Michele Fabiani che si ostina a non confessare reati da lui non commessi, io confesso di essere colpevole di reato associativo per avere avallato, anche se dissenziente, il furto di verità costantemente posto in atto da quel quotidiano e più colpevolmente di aver fatto parte della categoria cosiddetta professionale del giornalismo italiano.
Per via delle attenuanti ad alcuni note posso solo appellarmi alla clemenza della Corte.

Lucio Manisco.

Nessun commento: