mercoledì 7 gennaio 2009

I comunisti e la questione palestinese oggi

Contrariamente a quanto affermano alcuni compagni e compagne (che si dichiarano di estrazione ebraica) che, anche in questi giorni, si mantengono “equidistanti” sulla questione palestinese il problema non può essere limitato affatto al concedere semplicemente un po’ di comprensione per il “legame dei palestinesi con la propria terra”. Questa rischia di essere questione di lana caprina mentre a Gaza è in corso una vera proria mattanza contro la popolazione araba di terra di Palestina. Anche le posizioni che ci ripetono che la situazione è “complessa” e va “approfondita” sono formalmente corrette. Ma se ci fermiamo solo a questo si rischia (anche contro la volontà di chi esprime tali posizioni) di trovare alibi per annacqua le nostre coscienze (si spera di “classe”). Siamo comunisti e questo non ce lo possiamo permettere.

Il problema principale oggi è ribadire e trasmettere che - da comunisti (e quindi da antimperialisti) - non c'è NESSUNA equidistanza possibile tra aggressori e aggrediti, tra occupanti e occupati. E questo anche al di là del fatto che ci piaccia più Hamas, l'ANP o il FPLP. Al di là del fatto che "tutti i morti sono morti". E della comprensibile pulsione ad “approfondire” i temi dal punto di vista storico e teorico per “capire”, invece di schierarci sulle “sensazioni” o sugli elementi forniti dalla disinformazione imperialista. Anzi, come contributo al dibattito, allego un’interessante analisi che qualcosa in più ce la dice anche in questo senso. Soprattutto su come cominciare ad interrogarci sul ruolo dell’attuale Autorità Palestinese e non solo del grado di “terrorismo” di Hamas.

Intanto, però, fioccano le bombe sul popolo palestinese e noi dobbiamo chiarirci cosa fare e perchè. Nessuna particolare novità, d'altronde...è sempre stato l’atteggiamento dei comunisti da Marx, a Lenin, a Gramsci, a Ho Chi Minh fino a Guevara. Certo lo è un pò meno oggi dopo le ubriacature non-violente, post-moderne e anti-comuniste che hanno pervaso i principali partiti comunisti esistenti e tracimato nei movimenti (o quantomeno in parte del loro ceto politico).
Ma se l’obiettivo della ripresa del movimento comunista oggi nel nostro paese fosse segnato nel solco della continuità con la linea “bertinottiana” non avrebbero senso critiche e autocritiche sugli sbandamenti recenti, sugli arretramenti, sulla perdita di autonomia, nè su processi di ricomposizione o costituenti comuniste.

Dobbiamo dirlo. La soluzione “due stati per due popoli” è fallita - e sta continuando a fallire - non per l'azione di un presunto “terrorismo islamico” (o per gli effetti di una mitologica spirale tra “guerra e terrorismo”). Sta fallendo, innanzitutto, perchè dei due UNO STATO ESISTE (Israele) e l’altro NO (Palestina). E quello che esiste si è insediato nelle terre arabe con l’avallo delle maggiori potenze post-belliche, dopo anni di pressioni e terrorismo del movimento sionista, e con il suo schieramento economico-militare nel campo imperialista. Su questo non è possibile nessun “scurdámmoce ‘o passato” perchè quel passato recente è gravido di conseguenze sull’oggi.

Le forme della resistenza possibili, quelle migliori e quelle peggiori sono determinate dalle condizioni storiche interne ed esterne. Ma ai palestinesi non è stata mai data la possibilità di difendere i propri diritti al di fuori del quadro imperialista sopra descritto e di accordi che sanciscono la bantustizzazione delle proprie terre e misere risorse. Tra l'altro, accordi questi non solo imposti “con la pistola alla tempia” da Israele, USA e UE, ma anche spesso non rispettati dagli israeliani in primis. Basti vedere i pessimi accordi di Oslo franati sulla spianata delle Moschee nel 2001 con la repressione scatenata da Sharon.

Oggi siamo all’assurdo che gli unici che rivendicano l’attuazione ALMENO (ossia, come base minima) del principio “due stati per due popoli” sono PROPRIO i palestinesi. Non solo l’ANP, ma anche FPLP, Jihad e Hamas che - con prospettive storiche e per tattiche differenti - rivendicano QUANTOMENO l’applicazione in questo senso delle risoluzioni ONU (tutte disattese da Israele) che imporrebbero uno stato palestinese e il ritiro israeliano entro i confini del '67 (quindi riconoscendogli l'80% del territorio sotto occupazione), Gerusalemme divisa tra i due stati, ritorno di parte di profughi, ecc...

Questo dimostra due cose, a mio avviso:

1) L'unica prospettiva storica sensata (al di là delle imprevedibili strade tortuose e sanguinose che questa prenderà) è quella dello stato unico laico e multiconfessionale (quindi non "ripulito" etnicamente e senza "gettare a mare" né un ebreo né un musulmano) e la prospettiva – di fatto razzista – di “due stati per due popoli” è solo uno specchietto per le allodole per non far nascere l'unico dei due che non esiste (quello paestinese).

2) Gli accordi internazionali sono SOLO registrazione diplomatica dei rapporti di forza e quindi senza la RESISTENZA quello che si ottiene sarebbe ancora peggiore in questo contesto assai sfavorevole. Ossia, sarebbe l’annientamento della causa palestinese e la sua cancellazione dall’agenda politica. A meno che non si creda che sia il consesso internazionale delle potenze imperialiste a “regalare” quello che decenni di accordi al ribasso (tutti siglati SOLO quando c'è stata una forte RESISTENZA) non hanno imposto.

In questo senso l’aggressione a Gaza ha proprio l’obiettivo di ricavare il massimo sfruttando i rapporti di forza attualmente più favorevoli al regime di Tel Aviv grazie alla politica internazionale di frantumazione del fronte palestinese diviso tra “buoni” (l'ANP della Cisgiordania), disposti a concedere la propria indipendenza in cambio di un Bantustan, e “cattivi” (Hamas a Gaza e non solo) che si oppongono a questo tentativo.

Da comunisti dovremmo sapere che solo un connubio di effetti provocati da crisi internazionale, resistenza e crisi interna alla società israeliana faranno fare dei passi in avanti al riconoscimento dei sacrosanti diritti negati in quell'area (unica precondizione per una vera PACE). E se non da comunisti, almeno da “italiani” questo dovremmo saperlo bene visti gli esiti delle guerre (soprattutto la seconda).

E allora ognuno faccia la sua parte. Noi dobbiamo sostenere la resistenza del popolo palestinese, senza necessariamente sposarci questo o quel filone politico, ma anche senza NESSUNA equidistanza sulla contraddizione principale tra occupanti e occupati. Per fare questo bisogna essere in piazza anche contro qualsiasi sostegno alle missioni militari e agli accordi politici ed economici - che sostengono Italia ed i paesi imperialisti occidentali - con il paese occupante.
I cittadini israeliani con posizioni progressiste (ebrei e non) faranno la loro nelle terre dove abitano e i palestinesi sembra che siano già purtroppo abituati a farlo.
Qualsiasi persona intellettualmente onesta sosterrebbe la correttezza di questa posizione e chiunque potrebbe capire che - tra questi tre punti di resistenza – non è certo quello palestinese quello più arretrato.

Se invece di sostenere queste posizioni (che sembrerebbero l’ABC), applichiamo invece dei principi differenti (religiosi o filosofici che siano) e al contrario di quanto fatto nel passato con le resistenze dei popoli (dal Sud-Africa al Vietnam)... allora non si capisce proprio cose c’entriamo noi con comunismo, anticapitalismo, antimperialismo, ecc...Il nostro ruolo di “alternativa di società e non di governo” è del tutto inutile...abbiamo già orde di intellettuali liberali che giocano un ruolo in questo senso.

Comunque, anche su un terreno di visione “non comunista”, a ben vedere, ci sono fior fiore di posizioni oneste e di “buon senso” persino nel mondo della cultura ebraica o limitrofe (non comuniste e talvolta persino apertamente anticomuniste). Bisogna vedere se uno è interessato a cercarle e sostenerle coraggiosamente, almeno da questo punto di vista. O se codardamente ci si rifugia nell’equidistanza, contrariamente agli insegnamenti gramsciani sulla necessità storica della “partigianeria”.

Qualcuno, in questi giorni, citava correttamente le importanti prese di posizione degli “Ebrei contro l’occupazione”, di Illan Pappe o Joseph Halevi. Ma potrebbe essere utile citare anche uno dei più insigni giudaisti israeliani del ‘900, Yeshayahu Leibowitz, che accusò Sharon ed il sionismo di fine ‘900 di “nazismo” dopo Sabra e Chatila e dopo la legge della metà degli anni ‘80 che legalizzava, di fatto, le torture contro i palestinesi (sotto forma di “pressioni consentite”).
Potremmo persino rileggere le posizioni di Hannah Arendt contro la visione sionista (anche nel filone cosiddetto “socialista”) dell’occupazione o dei rabbini contro lo Stato d’Israele che considerano una bestemmia imporre in terra il “regno dei cieli” e, per giunta, “manu militari” con un bagno di sangue. Certo in uno stato teocratico e militarizzato, come quello israeliano, il livello di consenso interno è per lunghi tratti altissimo, ma negli anni più aumenta l’aggressività verso i palestinesi – in un clima di forte crisi economica interna ed internazionale – e più aumentano anche le voci “fuori dal coro”.
Esempi di tali posizioni pubbliche ce ne sono a bizeffe (alcune condivisibili, altre meno), così come di motivazioni per essere contro l’occupazione e la repressione israeliana, non equidistanti ma al fianco del diritto del popolo palestinese a resistere e a lottare per un proprio stato indipendente. Basta volerle realmente trovare. Da “sinceri democratici”, come si diceva una volta.

Ne prendiamo alcune dal mucchio sperando che poche righe stimolino a collegare la propria coscienza di classe con il proprio cervello e non solo con il proprio credo religioso:

«Ariel Sharon, mi sono deciso a rivolgermi pubblicamente a lei, capo del governo d’Israele, perché sono arrivato alla conclusione che bisogna dire alto e forte che la po¬litica di ritorsione perseguita da Israele è giunta a un punto estremo di assurdità. Non si tratta nemmeno più di una politica – che implica un pensiero e un obiettivo riconosciuto come possibile – ma di una zuffa tragica in cui, disgraziatamente, tutti i nostri valori morali stanno sprofondando. (...) Noi, che abbiamo imparato attraverso il dolore e la sofferenza a sopravvivere contro la forza brutale, come potremmo aver dimenticato che un popolo non si inchina mai senza essersi prima battuto? Lei, che si richiama così fortemente alla tradizione ebrea, ricordi le parole dei nostri profeti: "Non è la forza che fa il vincitore", diceva Samuele, mentre alcuni secoli più tardi Zac¬ca¬ria proclamava: "Né con la forza né con l’esercito ma con lo spirito...". (...) Desidero riaffermare ad alta voce, alla vigilia della sua elezione: il primo passo da fare, che è anche una necessità storica ma è anche, indubbiamente, un imperativo morale, è di riconoscere ai palestinesi la libertà di proclamare il loro stato. Bisogna persino spingersi più avanti e reclamare per Israele il privilegio di essere il primo Stato a rico¬noscere la legittimità di questo Stato palestinese. Uno Stato col quale Israele deve spartire la terra comune.» (Thèo Klein, avvocato, presidente onorario del Consiglio delle istituzioni ebree in Francia, Ariel Sharon et l’honneur d’Israel)

«Diciamo senza rigiri, la questione del sionismo è superata. Eppure, la sistematica amalgama tra antisionismo e antisemitismo è diventata la nuova arma di intimi¬da¬zio¬ne degli "amici di Israele". Le accuse che le istituzioni ebree di Francia lanciano con¬tro i media francesi, la violenza passionale delle reazioni e l’obbrobrio gettato su qualsiasi atteggiamento critico nei confronti di Israele sono testimonianze della con¬fu¬sione e della sovraeccitazione degli spiriti. Confondendo nonsionismo con anti¬se¬mi¬tismo, queste reazioni si sono moltiplicate da quando le guerra coloniale in Palestina-Israele ha raddoppiato di violenza. Così, le istituzioni ebree in Francia fan¬no oggi pesare un pericolo sugli ebrei e sul giudaismo e più particolarmente sulla co¬abitazione tra francesi ebrei e musulmani nella Repubblica.»

«Nelle sinagoghe e nei centri comunitari ebrei, la bandiera israeliana e la raccolta di denaro a favore di Israele tendono a sostituire i simboli religiosi tradizionali. (...) E’ co¬sì che si opera uno spostamento dal campo politico a quello religioso. In questa confusione, identificati come istituzioni di sostegno a Israele, sinagoghe e centri co¬mu¬nitari divengono bersagli per attacchi criminali, che ovviamente vanno puniti in quanto tali. Ma, qualificando di antisemitiche le posizioni non sioniste e critiche nei confronti della politica israeliana e confondendo una posizione politica con un’o¬pi¬nio¬ne razzista, le istituzioni ebree fanno gli apprendisti stregoni e divengono esse stes¬se dei vettori di violenza. Per l’ebreo praticante, il giudaismo non è un problema. In¬vece, per degli ebrei laici, presi tra universalismo e contrazione identitaria, il sionismo è divenuto una religione sostitutiva. Yeshayahu Leibowitz, filosofo israeliano, reli¬gio¬so e sionista, diceva di questi ebrei in cerca di identità: "Per la maggior parte degli ebrei che si dichiarano tali, il giudaismo è soltanto un pezzo di chiffon blu e bianco issato su un’asta, nonché le azioni militari che l’esercito compie a loro nome con que¬sto simbolo. L’eroismo in combattimento e la dominazione, ecco il loro giudai¬smo".» (Eyal Silvan, cineasta israeliano, La perciolosa confusione degli ebrei di Francia)

«Essere ebrei è una faccenda terribilmente complicata. Io per esempio mi ritengo ebreo pur non essendo sionista e trovandomi bene tra gli italiani, di cui mi cullo nell’illusione che siano ‘brava gente’ e pur essendo ateo. (...) Perché allora mi ostino a definirmi ebreo? Per la semplice ragione che con minor fortuna sarei finito ad Au¬schwitz. Come afferma Sartre, non è l’ebreo che crea l’antisemitismo, ma l’anti¬se¬mi¬ta che crea l’ebreo. Come si situa nell’attuale costellazione del mondo, in cui c’è rischio che il conflitto del Medio Oriente si trasformi in una deflagrazione definitiva, un siffatto ‘ebreo non ebreo’, per riprendere il titolo dell’ultimo libro di Isaac Deut¬scher? Anzitutto, egli non farebbe finta che il conflitto cominci adesso. Per utilizzare un’immagine dello stesso Deutscher, si è trattato del salto di un individuo malconcio e azzoppato, sopravvissuto ad Auschwitz, sulle spalle di un altro che risiedeva da tempo in quel luogo. Sarebbe stato bello se avesse avuto ragione Max Nordau, con il suo slogan: "Una terra spopolata per un popolo senza terra". Purtroppo, la Palestina non era spopolata.» (Cesare Cases, Ebreo non ebreo)

«Il Consiglio rappresentativo delle istituzioni ebree in Francia (Crif) chiama a manifestare il 7 aprile non soltanto contro gli attacchi ai luoghi di culto, ma anche per "sostenere Israele". (...) Riprendendo la parola d’ordine degli americani contrari alle crociate imperiali, noi rispondiamo: "Non in nostro nome!". (...) Riconosciuto dall’Au¬torità palestinese e da diversi governi arabi, il fatto nazionale israeliano è ormai sta¬bi¬li¬to in modo irreversibile. Ma una pace duratura esige il riconoscimento reciproco dei due popoli e la loro coesistenza fondata su uguali diritti. Gli israeliani han¬no uno sta¬to sovrano, un esercito potente, un territorio; i palestinesi sono da mez¬zo secolo par¬cheggiati in campi, sottoposti a brutalità e a umiliazioni, assediati in un territorio a pelle di leopardo: grande come una regione francese, la Cisgior¬da¬nia è lacerata da stra¬de strategiche, crivellata da oltre 700 check points, irta di colonie. Non c’è sim¬metria tra occupanti e occupati. (...) Era prevedibile che a forza di assimilare il giudaismo alla ragione di Stato israeliana e di presentare le istituzioni ebree come delle ambasciate ufficiose di Israele, gli apprendisti stregoni del Grande Israele finissero per essere presi in parola, anche se questo non rende meno odiosi e inammissibili gli attentati alle sinagoghe e le scuole. Noi condanniamo le aggressioni che puntano contro una comunità in quanto tale e che rendono gli ebrei colletti¬va¬men¬te responsabili delle esazioni commesse dal governo israeliano. Condanniamo ogni deriva antisemita della lotta contro la sua politica, condanniamo per motivi mo¬ra¬li come pure politici gli attentati contro la popolazione civile in Israele. Le azioni contro le colonie e contro l’esercito di occupazione derivano invece da una resi¬sten¬za storicamente legittima e da una difesa di diritti imprescrittibili.» (Sostenere Israele? Non in nostro nome!, dichiarazione firmata da 21 intellettuali ebrei, su «Le Monde»)

«Come uscirne? Nel futuro che si profila, tre soluzioni sembrano logiche. La prima è l’espulsione dei palestinesi da ciò che si chiama Eretz Israel, cioè tutta la Palestina mandataria. Un ministro assassinato di recente preconizzava questa soluzione. Si possono seriamente immaginare quali crimini occorrerebbe compiere per sboccare su questo risultato? Si può credere che il mondo arabo lo ratificherebbe? Che reste¬reb¬be allora dell’universalismo dei profeti di Israele – quello del secondo Isaia, ad e¬sem¬pio – e della speranza del cittadino israeliano di vivere, un giorno, in pace in questa re-gione? L’altra soluzione è il contrario della prima: la partenza degli israeliani verso dei cieli più clementi, gli Stati Uniti o l’Europa. Essa è strettamente impossibile, nell’im¬mediato. Ma in futuro? (...) La terza soluzione è quella della coesistenza, sia che essa assuma la forma di due Stati separati, o quella di una federazione o confede¬ra¬zio¬ne.»

«Due princìpi fondamentali possono ancora, forse, renderla possibile. Il primo è quello dell’eguaglianza civica, ma anche sociale ed economica. Questo principio vale anzitutto per lo spirito che deve reggere ogni negoziato futuro. Vale per i palestinesi cittadini di Israele che, cinquant’anni dopo la creazione dello Stato, sono ancora lontani dal contare. Vale anche per gli israeliani che decidessero di restare in territorio palestinese e che non dovrebbero più esservi incastrati. Il secondo è quello della reciprocità. Ogni rinuncia alla sovranità di una delle parti contraenti deve trova¬re la sua contropartita presso l’altra parte. Questo vale per tutti i problemi in dibattito, compreso beninteso quello di Gerusalemme e dei rifugiati. (...) Noi speriamo, contro ogni speranza..» (Elias Sanbar, redattore della «Revue d’Etudes Palestiniennes», Pierre Vidal-Naquet, storico, Is¬raël - Palestine: contre toute espoir)

«Limor Livnat è legata alla storia della "lunga durata"; essa colloca l’inizio nel XII secolo prima della nostra era e la fine a metà del secondo millenario. L’attore prin¬ci¬pa¬le è un "popolo-razza" che era riuscito a conquistarsi un territorio all’inizio stesso del¬la storia, ma che, come accadde agli spagnoli dell’VIII secolo, aveva visto la sua ter¬ra occupata da quei cattivi degli arabi. Però, così come gli spagnoli espulsero gli arabi dopo otto secoli di presenza, gli ebrei riuscirono anch’essi a riappropriarsi della propria terra dopo mille e duecento lunghi anni. (...) Io faccio parte di quegli israeliani che hanno smesso di rivendicare per se stessi dei diritti storici immaginari; se, in effetti, per organizzare il mondo s’invocano delle frontiere o dei diritti che risal¬go¬no a duemila anni fa noi finiremo per trasformare il mondo in un immenso asilo psi¬chiatrico. Allo stesso modo, se continuiamo a educare i nostri figli israeliani in base a una memoria nazionale contraffatta sino a questo punto non arriveremo mai a un compromesso storico duraturo.»

«Nel 1993 Itzhak Rabin ha iniziato l’evacuazione dei territori occupati. La bandiera pa¬le¬stinese ha sventolato su Jenin e Ramallah. Perà, parallelamente a questo pro¬cesso politico, la maggior parte degli storici israeliani non ha avviato l’opera di smi¬namento della mitologia che ha indotto molti israeliani a credere che quei territori siano parte integrante della patria indivisibile. Con la riproduzione di queste men¬zo¬gne storiche, gli storici hanno anch’essi assunto la loro parte nel degrado attuale. I po¬litici di destra e di sinistra come la signora Livnat o il signor Barak, che hanno si¬ste¬maticamente perseguito una politica di colonizzazione nei territori occupati, per¬pe¬tuano l’impresa di costruzione della storia. Anche i palestinesi dovrebbero assorbire la ragione dolorosa secondo cui non si ripara a un’ingiustizia storica con una nuova ingiustizia. Benché questo per loro sia difficile bisogna dirlo: la proclamazione del di¬rit¬to al ritorno dei rifugiati nei territori di prima del 1948 equivale di fatto a un rifiuto di riconoscere lo Stato di Israele. Beninteso, gli israeliani debbono evacuare tutti i ter¬ri¬tori conquistati nel 1967, compresa la parte araba di Gerusalemme, mentre i diri-gen¬ti palestinesi debbono formulare un progetto di compromesso perché si tratta delle tragiche conseguenze del 1948 e non di continuare a nutrire le illusioni dei loro com¬patrioti.» (Shlomo Sand, docente di storia all’università di Tel Aviv, Israele: la nostra parte di menzogne)

«La comparsa dei 52 ufficiali e soldati che qualche settimana fa hanno firmato una lettera per affermare che non serviranno più nell’esercito che lotta per le colonie e l’occupazione, è un fenomeno nuovo. Dalla pubblicazione di questa lettera (oggi firmata da 250 riservisti, e con molte altre adesioni) non è passato giorno senza una discussione pubblica. Come ha ben spiegato un giovane religioso che mesi fa ha preferito la prigione: "Io sono stato laggiù, so cosa significa trattare esseri umani come fossero cani, deumanizzarli, privarli di ogni diritto. Posso capire il loro odio, i loro attacchi. Non sopporto di farlo, lo devo ai miei figli. Cosa dovrei rispondergli quando mi domanderanno se anch’io c’ero? E se il mio rabbino mi condanna, preferisco comunque non commettere gli atti terribili che sono il risultato della repressione".» (Zvi Schuldiner, Un terremoto politico in Israele)

«L’occupazione, che dura da una generazione e che pesa sulla vita di oltre 3,5 milioni di palestinesi, è il motivo che ha spinto me e centinaia di altri obiettori nelle forze armate, nonché decine di migliaia di cittadini israeliani, a opporci alla politica e all’azione del nostro governo in Cisgiordania e Gaza. Il mio impegno ai valori democratici mi ha spinto ad agire contro l’occupazione – a firmare petizioni, scrivere annunci, prender parte a manifestazioni e veglie. Ma questi atti di opposizione non mi assolvono dal fare una scelta morale quanto a partecipare all’occupazione come ufficiale e ad ordinare a altri di fare altrettanto. Perciò, mentre continuo a servire nelle forze di difesa, io selettivamente rifiuto degli ordini militari se questi richiedono la mia presenza nei territori oltre i confini israeliani del 1967. (….) Io e gli altri che serviamo nelle forze di difesa non possiamo, con la nostra azione, cambiare la politica del governo o rendere più probabili dei negoziati di pace. Ma possiamo mostrare ai nostri concittadini che l’occupazione dei territori non è soltanto una questione politica o strategica. E’ anche una questione morale.» (Ishai Menuchin, maggiore della riserva e presidente di Yesh Gvul, il movimento dei militari israeliani per una rifiuto selettivo)

E se lo dicono forte loro, personaggi non certo tacciabili di antisemitismo e spesso persino convinti sostenitori dell’esistenza dello stato di Israele, perchè non dovrebbero dirlo i comunisti ed i sinceri democratici nel nostro paese?
Dalla parte della lotta del popolo palestinese...sempre!

Andrea

1 commento:

Anonimo ha detto...

inchiesta e arresti di Vibo Valentia del 13/01/2009, lo sapevate che è stato arrestato un fratello di un assessore delComune di Zambrone?