Quelle stesse autorità giudiziarie che da sempre si sono contraddistinte per omertà e compiacenza di fronte ai peggiori scempi ambientali e alle peggiori prevaricazioni nei confronti dei lavoratori e dei loro diritti, stasera hanno posto i sigilli alla Cooperativa Cantieri Navali Megaride attribuendo pretestuosamente alla Cooperativa una presunta "violazione delle norme sul corretto smaltimento dei rifiuti".
Tale accusa, che in una città ancora oggi devastata dalla crisi rifiuti appare già di per se ridicola, lo diventa ancor più se si pensa che il Cantiere Megaride, regolarmente autorizzato allo smaltimento degli scarti di lavorazione, aveva già provveduto lo scorso mese di giugno a rispettare tempestivamente delle prescrizioni mosse dalla Polizia Giudiziaria.
Si tratta chiaramente di un sopruso, teso ad attaccare e screditare quest'esperienza, a cui gli operai della Coop Megaride risponderanno con la lotta.
Da dieci anni i lavoratori dei “Cantieri Navali Megaride” portano avanti con le proprie forze un’esperienza produttiva inedita all’interno del Porto di Napoli. Dopo aver sconfitto un padrone interessato unicamente a speculare sul cantiere attraverso licenziamenti di massa e operazioni poco trasparenti, i lavoratori hanno dato vita nel febbraio 1999, dopo decenni di lotte dopo 4 anni di occupazione, ad una cooperativa autogestita.
Questa esperienza, che ha permesso di salvare decine di operai da un futuro di miseria e disoccupazione, ha in questi anni portato linfa vitale all’interno di un porto che da decenni, a causa di pesanti ristrutturazioni produttive, ha visto tagliare migliaia e migliaia di posti di lavoro ad opera di padroni senza scupoli.
In questi anni la Coop Megaride ha rappresentato l’unica esperienza virtuosa all’interno del Porto di Napoli, perché ha saputo coniugare l’efficienza e la qualità delle attività produttive con la tutela dell’occupazione e dei diritti dei lavoratori: questo senza aver mai usufruito di nessun finanziamento e ne tantomeno beneficiato di nessuna legge a sostegno per le sue attività.
QUESTA INEDITA ESPERIENZA HA DATO E DA FASTIDIO A QUALCUNO
Già nel corso della sua decennale esperienza, il cantiere è stato più volte oggetto dell’”attenzione” delle varie autorità interne al Porto. Controlli ed ispezioni di ogni sorta da parte di Ispettorato, Finanza, INAIL, ma soprattutto di ASL e Capitaneria: proprio quegli stessi enti che da sempre sono pronti a chiudere un’occhio quando si tratta di vigilare e controllare quelle migliaia di aziende che per tutelare i profitti operano in barba alle più elementari norme di tutela della salute e dei diritti dei lavoratori e degli operai.
Puntualmente, i soliti poteri “occulti” accorrono per mettere i bastoni tra le ruote ad una realtà che per qualcuno viene ritenuta scomoda.
HANNO SEMPRE VOLUTO CREARE DIFFICOLTA’,
AFFINCHE’ QUEST’ESPERIENZA NON DECOLLASSE.
Oggi, con l’ausilio della magistratura, sono riusciti a mettere i sigilli al cantiere perché, a detta delle autorità, durante la rottamazione di alcuni relitti sarebbero stati trovati, l’estate scorsa, “diversi quintali di rifiuti speciali”. Argomentazione davvero risibile se si pensa che proprio in quei mesi l’intera Campania era alle prese con una catastrofe-rifiuti che ha distrutto e sconvolto l’intero territorio. Una catastrofe ambientale per cui nessuno ha ancora pagato, tantomeno i veri responsabili che si trovano all’interno delle istituzioni e dei poteri forti della città. Come nessuno ha mai pagato per quella vera e propria carneficina che ogni giorno vede quattro operai morire sul luogo di lavoro, e in cui quelle stesse autorità giudiziarie oggi così solerti nel sigillare il cantiere Megaride se ne sono sempre “lavate le mani” (vedi strage alla Thyssen-Krupps ma anche gli scandali delle morti per amianto).
In un periodo di crisi economica, dove in tutto il mondo gli Stati e i governi si prodigano per salvare quelle stesse imprese e banche che la crisi l’hanno creata, a Napoli, capitale della disoccupazione, si decide di attaccare una delle poche realtà produttive che ancora resistono sul territorio, chiudendo l’unico cantiere che invece di pensare unicamente ai profitti, ha come unica ragion d’essere la tutela degli interessi di chi lavora e produce.
NON CI HANNO FERMATO I PADRONI
NON CI FERMERANNO NEANCHE I LORO SERVI SCIOCCHI
Napoli, 10-12-2008
I lavoratori della Coop. Megaride
mercoledì 10 dicembre 2008
NON LI PIEGHERETE, NON CI PIEGHERANNO. IN DIFESA DI MEGARIDE
IN DIFESA DI MEGARIDE - Gli operai della Megaride, per storia loro e loro stessa dedizione alla Lotta ed al Lavoro, non sono - ahinoi - un esempio. Se lo fossero, probabilmente vivremmo in un Paese molto diverso. Sono, intanto, un precedente in questi anni di crisi, nei quali è più comodo "deviare" su suggestioni "altermondiste" poste, poche e nemmeno tanto salde, al di là degli oceani, che non lavorare al recupero ed alla ricomposizione di una nuova e rinnovata soggettività di classe che abbia lena di alternativa reale di quel Sistema e quel Potere che invece ad oggi può solamente subire, dispersa e disarticolata sì come ridotta.
Gli operai della Megaride sono agente di disturbo di quel manovratore, declinato nel settore in padroni ed armatori, che vorrebbe farci credere ed imporci a tal proposito che non si possa fare a meno di loro, dei loro presunti luminari e dei loro apparati di controllo.
Gli operai della Megaride sono la dimostrazione che, specialmente, a mettere in crisi le fabbriche, non sia tanto il "costo del lavoro" sì insopportabile per padroni e imprenditori all'arrembaggio, quanto piuttosto il costo di chi, come padroni e imprenditori detti, quel "costo" sfrutta: stipendi da capogiro e le spese manager, prelievi costanti dalle tasche del Lavoro per poi speculare altrove, errori, fatti e ripetuti, perchè, spesso, i padroni "oltre a farci, ci sono proprio"...
Gli operai della Megaride, in una parola, sono imbarazzanti. Imbarazzano burocrati istituzionali, sindacali o d'altra sorta che quotidianamente pongono ogni intralcio all'emancipazione reale della classe. Imbarazzano chi fa il "lavoro della politica" piuttosto che una più giusta e necessaria "politica del Lavoro", compreso chi, a forza di "men peggio" compie sapientemente suicidio in un eterno "compatibilizzarsi" senza posa al Capitale e i suoi interessi. Imbarazzano persino "settori radicali", "disobbedienti" per così dire, che si compiacciono del loro ribellismo generico e giovanilistico, per accontentarsi poi di qualche azione pretesa "esemplare" - ed oggi nemmeno più tanto o sempre più di rado - e ricondursi e provare a ricondurre il Movimento tutto sull'altare delle compatibilità finto-riformatrici di partiti e partitini finto-riformatori, avendone così in premio qualche "consulenza" stipendiata o "convenzione" di lavoro..
La determinazione dei Megaride, operai in cantieri ed officine portuali a Napoli è invece tutt'affatto che generica o formale. Essa è obbligatoriamente quotidiana, figlia dell'esigenza reale di mantenere condizioni di vita e di lavoro accettabili e pensare alla famiglia, ma tributo d'ogni momento fatto di orgoglio, coscienza, disciplina e senso di responsabilità. Questo è e significa esser "padroni di se stessi", proprietari collettivi di mezzi di produzione socializzati sì come socializzato è il Lavoro, autorganizzarsi socialmente come classe, prima "in sè", poi "per sè".
Gli operai della Megaride. La loro azione e storia dev'esser sostenuta alla maniera propria della classe, in osservanza della loro capacità d'analisi continua del reale, dei rapporti di forza, delle regole e dei codici del mercato. La loro forza sta certo nell'esperienza maturata dalla e nella Lotta, leggere, studiare, discutere e ricercare sintesi difficili, politicamente avanzate, sindacalmente autosufficienti - attività, queste, rare anche in larghi settori dell'antagonismo sociale - ma, altrettanto certamente, sta anche nella capacità, del Movimento tutto, di saper organizzarsi e combattere per la dignità del Lavoro, l'Autonomia di Classe, la solidarietà militante.
Il Collettivo Politico MILITANZ Casa del Popolo (CdP), collettivo di Lotta e di Lavoro, collettivo di Popolo per il Popolo nel segno dell'Autorganizzazione sociale e il suo Riscatto, si schiera a fianco degli operai della Megaride. Si schiera a loro fianco, prim'ancora che per aver con loro condiviso anni di militanza e lotta politica, per il principio stesso della solidarietà di Popolo e di Classe. E vi si schiera, al di là delle strade diverse ormai intraprese ed oltre tattiche e strategie diversamente maturate, attenendosi al piano della Lotta, in tempi, modi e forme che gli operai valuteranno di volta in volta più opportune. Apertamente, pertanto, sostiene la Megaride di nuovo scesa in lotta ed offre dunque il proprio contributo, in termini di iniziativa, agitazione e controinformazione, quale atto di responsabilità politica, disciplina militante, giustizia di classe.
Per l'unità nella Lotta. Per l'unità del Lavoro.
Collettivo Politico MILITANZ Casa del Popolo (CdP)
per l'Autorganizzazione sociale
Gli operai della Megaride sono agente di disturbo di quel manovratore, declinato nel settore in padroni ed armatori, che vorrebbe farci credere ed imporci a tal proposito che non si possa fare a meno di loro, dei loro presunti luminari e dei loro apparati di controllo.
Gli operai della Megaride sono la dimostrazione che, specialmente, a mettere in crisi le fabbriche, non sia tanto il "costo del lavoro" sì insopportabile per padroni e imprenditori all'arrembaggio, quanto piuttosto il costo di chi, come padroni e imprenditori detti, quel "costo" sfrutta: stipendi da capogiro e le spese manager, prelievi costanti dalle tasche del Lavoro per poi speculare altrove, errori, fatti e ripetuti, perchè, spesso, i padroni "oltre a farci, ci sono proprio"...
Gli operai della Megaride, in una parola, sono imbarazzanti. Imbarazzano burocrati istituzionali, sindacali o d'altra sorta che quotidianamente pongono ogni intralcio all'emancipazione reale della classe. Imbarazzano chi fa il "lavoro della politica" piuttosto che una più giusta e necessaria "politica del Lavoro", compreso chi, a forza di "men peggio" compie sapientemente suicidio in un eterno "compatibilizzarsi" senza posa al Capitale e i suoi interessi. Imbarazzano persino "settori radicali", "disobbedienti" per così dire, che si compiacciono del loro ribellismo generico e giovanilistico, per accontentarsi poi di qualche azione pretesa "esemplare" - ed oggi nemmeno più tanto o sempre più di rado - e ricondursi e provare a ricondurre il Movimento tutto sull'altare delle compatibilità finto-riformatrici di partiti e partitini finto-riformatori, avendone così in premio qualche "consulenza" stipendiata o "convenzione" di lavoro..
La determinazione dei Megaride, operai in cantieri ed officine portuali a Napoli è invece tutt'affatto che generica o formale. Essa è obbligatoriamente quotidiana, figlia dell'esigenza reale di mantenere condizioni di vita e di lavoro accettabili e pensare alla famiglia, ma tributo d'ogni momento fatto di orgoglio, coscienza, disciplina e senso di responsabilità. Questo è e significa esser "padroni di se stessi", proprietari collettivi di mezzi di produzione socializzati sì come socializzato è il Lavoro, autorganizzarsi socialmente come classe, prima "in sè", poi "per sè".
Gli operai della Megaride. La loro azione e storia dev'esser sostenuta alla maniera propria della classe, in osservanza della loro capacità d'analisi continua del reale, dei rapporti di forza, delle regole e dei codici del mercato. La loro forza sta certo nell'esperienza maturata dalla e nella Lotta, leggere, studiare, discutere e ricercare sintesi difficili, politicamente avanzate, sindacalmente autosufficienti - attività, queste, rare anche in larghi settori dell'antagonismo sociale - ma, altrettanto certamente, sta anche nella capacità, del Movimento tutto, di saper organizzarsi e combattere per la dignità del Lavoro, l'Autonomia di Classe, la solidarietà militante.
Il Collettivo Politico MILITANZ Casa del Popolo (CdP), collettivo di Lotta e di Lavoro, collettivo di Popolo per il Popolo nel segno dell'Autorganizzazione sociale e il suo Riscatto, si schiera a fianco degli operai della Megaride. Si schiera a loro fianco, prim'ancora che per aver con loro condiviso anni di militanza e lotta politica, per il principio stesso della solidarietà di Popolo e di Classe. E vi si schiera, al di là delle strade diverse ormai intraprese ed oltre tattiche e strategie diversamente maturate, attenendosi al piano della Lotta, in tempi, modi e forme che gli operai valuteranno di volta in volta più opportune. Apertamente, pertanto, sostiene la Megaride di nuovo scesa in lotta ed offre dunque il proprio contributo, in termini di iniziativa, agitazione e controinformazione, quale atto di responsabilità politica, disciplina militante, giustizia di classe.
Per l'unità nella Lotta. Per l'unità del Lavoro.
Collettivo Politico MILITANZ Casa del Popolo (CdP)
per l'Autorganizzazione sociale
Atene brucia!
Una scintilla che potrebbe incendiare la prateria
dell’Europa scossa dalla crisi…
comunicato della Rete dei Comunisti
Come a Genova nel 2001, ad Atene un poliziotto ha assassinato un giovane manifestante: Alexandros Andreas Grigoropoulos aveva solo 16 anni.
La mobilitazione incessante degli studenti e dei lavoratori greci contro i tagli dei finanziamenti all’istruzione pubblica e contro la privatizzazione delle università ha innervosito a tal punto il debole e corrotto governo di Karamanlis da creare le condizioni per l’omicidio di Andreas. Solo le testimonianze dei passanti e lo scoppio di una ribellione generalizzata nelle piazze di tutta la Grecia hanno portato all’arresto del poliziotto omicida, che però non mette in discussione l’impunità degli apparati repressivi. E’ forte la tentazione dei governi europei, in difficoltà di fronte alle mobilitazioni dei settori colpiti dalla crisi che scuote il mondo capitalista, di rafforzare una repressione militare e un controllo asfissiante che nei fatti eliminano ogni possibilità di esercizio effettivo della democrazia. Gli apparati di sicurezza diventano così sempre più intoccabili in quanto determinanti per governi in crisi di legittimità e incapaci di rispondere alla crisi in termini politici e di consenso.
La gioventù greca ha risposto a questo omicidio politico con una ribellione senza precedenti che sta infiammando le strade di tutto il paese. I manifestanti chiedono le dimissioni del governo di Nuova Democrazia e una punizione esemplare per i poliziotti colpevoli. Ma esprimono anche la rabbia di chi subisce gli effetti di una durissima crisi economica che le élites vorrebbero far pagare alle classi lavoratrici. Andreas è vittima di una destra autoritaria e filoamericana ma anche di un metodo di gestione autoritario delle contraddizioni sociali che accomuna tutti i governi europei al di là del loro colore: i tagli draconiani all’istruzione pubblica e la volontà di ripristinare una fortissima selezione di classe nel sistema educativo sono stati decisi dall’Unione Europea ed imposti in ogni singolo paese da governi socialisti, liberali o conservatori, rappresentando una priorità nella costruzione di un polo geopolitico europeo opposto ma uguale a quello USA. Non è un caso che il Partito Socialista greco, il PASOK, balbetti ancora e non si muova con decisione contro un governo di destra pure estremamente debole in termini di consensi e di voti in parlamento.
Sta quindi agli studenti e ai lavoratori, ad un nuovo blocco sociale anticapitalista, rispondere con la lotta e l’organizzazione al tentativo delle classi dominanti europee di gestire la crisi tramite la repressione e la guerra tra poveri.
La capillare e determinata risposta che i compagni greci stanno dando non ci sorprende: è il prodotto di una sinistra di classe e anticapitalista che in questi anni non ha rinunciato a radicarsi nel conflitto sociale e nei movimenti popolari e giovanili rifuggendo ogni tentazione istituzionalista.
Esprimiamo il nostro dolore e la nostra rabbia per l'uccisione del giovane compagno. Manifestiamo la nostra piena e incondizionata solidarietà alle organizzazioni della sinistra greca che hanno scelto di rispondere con la mobilitazione all’omicidio di Andreas Grigoropoulos. Chiediamo insieme ai compagni greci le dimissioni del governo, la fine dell’impunità per gli apparati repressivi, il ritiro di tutte le misure antipopolari su istruzione e lavoro. Invitiamo i movimenti italiani a unirsi a quelli greci in una lotta che non può che essere unitaria, avendo le stesse controparti.
La Rete dei Comunisti
Roma, 8 dicembre 2008
dell’Europa scossa dalla crisi…
comunicato della Rete dei Comunisti
Come a Genova nel 2001, ad Atene un poliziotto ha assassinato un giovane manifestante: Alexandros Andreas Grigoropoulos aveva solo 16 anni.
La mobilitazione incessante degli studenti e dei lavoratori greci contro i tagli dei finanziamenti all’istruzione pubblica e contro la privatizzazione delle università ha innervosito a tal punto il debole e corrotto governo di Karamanlis da creare le condizioni per l’omicidio di Andreas. Solo le testimonianze dei passanti e lo scoppio di una ribellione generalizzata nelle piazze di tutta la Grecia hanno portato all’arresto del poliziotto omicida, che però non mette in discussione l’impunità degli apparati repressivi. E’ forte la tentazione dei governi europei, in difficoltà di fronte alle mobilitazioni dei settori colpiti dalla crisi che scuote il mondo capitalista, di rafforzare una repressione militare e un controllo asfissiante che nei fatti eliminano ogni possibilità di esercizio effettivo della democrazia. Gli apparati di sicurezza diventano così sempre più intoccabili in quanto determinanti per governi in crisi di legittimità e incapaci di rispondere alla crisi in termini politici e di consenso.
La gioventù greca ha risposto a questo omicidio politico con una ribellione senza precedenti che sta infiammando le strade di tutto il paese. I manifestanti chiedono le dimissioni del governo di Nuova Democrazia e una punizione esemplare per i poliziotti colpevoli. Ma esprimono anche la rabbia di chi subisce gli effetti di una durissima crisi economica che le élites vorrebbero far pagare alle classi lavoratrici. Andreas è vittima di una destra autoritaria e filoamericana ma anche di un metodo di gestione autoritario delle contraddizioni sociali che accomuna tutti i governi europei al di là del loro colore: i tagli draconiani all’istruzione pubblica e la volontà di ripristinare una fortissima selezione di classe nel sistema educativo sono stati decisi dall’Unione Europea ed imposti in ogni singolo paese da governi socialisti, liberali o conservatori, rappresentando una priorità nella costruzione di un polo geopolitico europeo opposto ma uguale a quello USA. Non è un caso che il Partito Socialista greco, il PASOK, balbetti ancora e non si muova con decisione contro un governo di destra pure estremamente debole in termini di consensi e di voti in parlamento.
Sta quindi agli studenti e ai lavoratori, ad un nuovo blocco sociale anticapitalista, rispondere con la lotta e l’organizzazione al tentativo delle classi dominanti europee di gestire la crisi tramite la repressione e la guerra tra poveri.
La capillare e determinata risposta che i compagni greci stanno dando non ci sorprende: è il prodotto di una sinistra di classe e anticapitalista che in questi anni non ha rinunciato a radicarsi nel conflitto sociale e nei movimenti popolari e giovanili rifuggendo ogni tentazione istituzionalista.
Esprimiamo il nostro dolore e la nostra rabbia per l'uccisione del giovane compagno. Manifestiamo la nostra piena e incondizionata solidarietà alle organizzazioni della sinistra greca che hanno scelto di rispondere con la mobilitazione all’omicidio di Andreas Grigoropoulos. Chiediamo insieme ai compagni greci le dimissioni del governo, la fine dell’impunità per gli apparati repressivi, il ritiro di tutte le misure antipopolari su istruzione e lavoro. Invitiamo i movimenti italiani a unirsi a quelli greci in una lotta che non può che essere unitaria, avendo le stesse controparti.
La Rete dei Comunisti
Roma, 8 dicembre 2008
Report sullo stato del movimento studentesco e sulla fase attuale
Col corteo nazionale degli universitari dello scorso 14 novembre, e all’indomani della due giorni di dibattito che ha coinvolto l’intero movimento a Roma, si può con ogni probabilità considerare esaurita la prima fase, quella più spontanea e genuinamente “caotica” dell’”Onda”. Come per tutti i movimenti di lotta e di contestazione, anche per quello universitario dell’autunno 2008 sembra essere giunta “l’ora della maturità”, cioè il momento di ragionare sui metodi di conflitto, sulle prospettive e soprattutto sui contenuti e obiettivi della mobilitazione.
In queste settimane praticamente tutte le organizzazioni della sinistra, politica e sindacale, di classe e non, hanno fatto a gara a chi tesseva meglio e di più le lodi del movimento, alcune sottolineandone quella carica di radicalità nelle parole d’ordine e nelle pratiche di lotta come da anni non se ne vedevano negli Atenei (e questo a noi è parso di gran lunga l’elemento più significativo e degno d’attenzione) altri ponendo invece l’accento, a nostro avviso oltremisura e spesso con intenti strumentali, sull’innovazione nei linguaggi e su una non meglio comprensibile “irrapresentabilità” del movimento.
Anche noi, come compagni appartenenti all’area comunista rivoluzionaria, abbiamo fin dal primo momento riconosciuto a questo movimento il merito (enorme!) della rottura di una pace sociale che negli Atenei regnava quasi ininterrotta da più di un decennio. Un merito che l’Onda si è conquistata sul campo, grazie a un proliferare di occupazioni e iniziative di lotta e a una partecipazione in piazza che l’ha resa, almeno nei numeri, il più grande movimento studentesco Italia dal 1990 (se non dal 1977) ad oggi.
Dopo due mesi di lotta e dopo due giornate di discussione nazionale (precedute e seguite da giorni e giorni di discussione nei singoli atenei e facoltà), sembrano tuttavia giunti al pettine una serie di “nodi” politici la cui risoluzione diviene per il movimento tutto ogni giorno di più necessaria e obbligatoria. Da comunisti, abbiamo a cuore non solo il presente, ma anche e soprattutto il futuro del movimento. E’ per questo che, pur nel rispetto totale dell’autonomia delle sue scelte, non intendiamo accodarci al carrozzone politicista di chi “liscia il pelo” al movimento pur di ricavarne qualche voto in più alle prossime elezioni universitarie o, in prospettiva, alle prossime europee, o di chi (peggio ancora!) “surfa” sul movimento con l’idea di poterne ricavare qualche ennesima, angusta briciola caduta dalla tavola dei baronati accademici, in termini di corsi “autogestiti” con tanto di crediti formativi (!!!).
Giunti alle soglie di dicembre (mese da sempre nefasto per le lotte studentesche), andrebbe fatto un bilancio della lotta come si è articolata finora, per individuarne le prospettive e proseguire la mobilitazione: al contrario, continuare con le tiritere dei tipo “tutto va bene, madama la marchesa” servirà solo ad accelerare il riflusso. Allo stesso tempo, pensiamo che una delle principali ricchezze del movimento consista nella sua pluralità, e soprattutto nella possibilità che questa pluralità emerga in maniera limpida agli occhi di tutti: cosa ben diversa da ciò a cui abbiamo assistito a Roma, dove due gruppi politici, disobbedienti-Uniriot e Sinistra Critica (senza dubbio maggioritari nell’Ateneo ospitante ma decisamente minoritari nell’insieme del movimento) hanno praticamente gestito a piacimento le assemblee, occupando le presidenze senza alcun mandato dell’assemblea, e dando vita, almeno sino alla rottura di sabato notte, a diplomazie segrete con tanto di rinvii reiterati delle plenarie: atteggiamenti i quali hanno infastidito non poco anche il grosso della platea “non politicizzata”.
Irrappresentabili, da chi e da cosa?
Se quest’onda dev’essere davvero “irrapresentabile” (laddove per questo termine si intenda “non rappresentabile da alcuna forza politica o sindacale che in questi anni ha affossato le lotte e prodotto arretramenti generalizzati nelle condizioni di vita e di lavoro”) ebbene essa deve tanto più riaffermare l’indisponibilità a farsi rappresentare ed eterodirigere da gruppi politici che nell’ultimo decennio hanno prodotto solo sconfitte e fallimenti.
Ci sembra invece che dietro l’ammaliante slogan “siamo irrapresentabili”, si celi in realtà l’intento di una determinata area politica (ex-post-disobbedienti di Uniriot con l'aggiunta di qualche mummia vendoliana in uscita da Rifondazione) di impedire con ogni mezzo il contatto del movimento con la politica reale, con le altre lotte sociali in corso nel paese, con la necessità impellente di accompagnare lo slogan “noi la crisi non la paghiamo” (senz’altro dirompente) con un’analisi attenta e adeguata della crisi del capitalismo in atto e, soprattutto, con una pratica conseguente tesa a costruire l’unità di classe contro il governo Berlusconi, contro il padronato (sia esso di destra o di centrosinistra) e contro le burocrazie sindacali colluse col potere. In sintesi, chi ha in queste settimane abusato maggiormente di questo slogan, sembra in realtà voler dire “il movimento è cosa nostra, dunque saremo noi soli a rappresentarlo”… E così, chiunque “osi” avviare una discussione e un confronto sui contenuti e sulla necessità di unificare le lotte viene sistematicamente bollato come “m-l”, come “residuo del novecento”, e così via...
Come se poi le teorie “partecipative” dei disobbedienti fossero un’invenzione di oggi e non rappresentassero nient’altro che una versione riveduta e (s)corretta del socialismo utopistico pre-marxiano, dunque ottocentesco (do you remember Fourier?)…
La due giorni di assemblea
L’assemblea della Sapienza, da questo punto di vista, è stata paradigmatica e al tempo stesso indicativa dello stato del movimento.
Dopo una plenaria durata poco più di mezz’ora (con 4 interventi rigorosamente blindati), il dibattito si è subito trasferito nei tre gruppi di lavoro (welfare e diritto allo studio; didattica; formazione), non a caso ribattezzati “workshop” per sottolinearne il carattere più seminariale che decisionale.
In questa sede sono apparsi subito chiari i tentativi da parte delle presidenze (autoproclamatesi senza alcun mandato dell'assemblea) di eludere la discussione sui punti nevralgici: sulla modalità di partecipazione allo sciopero generale del 12 dicembre; sulla costruzione di momenti di confronto ed iniziative di lotta comuni col mondo del lavoro; sulla necessità di articolare una battaglia di lungo respiro contro il precariato nell’università e contro l'attacco al diritto allo studio (mense, residenze, trasporti, ecc.) inteso non come generica “sottrazione di reddito”, bensì come strumento di selezione di classe e di espulsione degli studenti lavoratori e proletari dagli atenei; infine, sulla necessità di una messa in discussione radicale del credito formativo, inteso come metro di valutazione di tipo produttivistico e aziendale, dunque padronale…
Non tutto però è andato come negli auspici delle presidenze autoproclamate: nel corso del dibattito pomeridiano, soprattutto nei gruppi welfare e didattica, si sono moltiplicati interventi di studenti e compagni che affrontavano in un ottica di classe le tematiche sopra accennate, al punto di costringere le presidenze a stravolgere più volte l’ordine degli interventi “per evitare che gli m-l prendessero il sopravvento nell’assemblea”. Lo stesso Raparelli, noto capo dei disobbedienti romani molto avvezzo alle presenze negli studi televisivi (un nuovo Caruso alle porte?), è stato notato mentre strigliava un gruppetto di accoliti ai bordi della sala del gruppo “welfare”, lasciandosi sfuggire che “l’assemblea gli stava sfuggendo di mano e non si poteva andare avanti così…”.
Ma quali i contenuti della proposta di Uniriot?
Sostanzialmente due, semplici semplici, i quali sono emersi in maniera chiara dall’intervento di tal Gigi Roggiero, proveniente dal nord-est:
1- Autoriforma, autoriforma, autoriforma: anche qui la parola sembra molto affascinante. Peccato che a pronunciarla siano in primo luogo coloro che già nel 1997, celandosi dietro questa innocua formuletta, accettarono la Riforma Berlinguer, che introduceva l’autonomia didattica e finanziaria per gli Atenei e il sistema del credito formativo. Ancora oggi Raparelli, Roggiero e compagnia continuano a vedere opportunità e spazi di “autoformazione” in quello che in realtà non è altro che un singolo tassello del puzzle messo a punto dalla borghesia negli ultimi vent’anni: un tassello che rende l’istruzione funzionale alla competizione capitalistica globale, dunque strumento per garantire e incentivare la tendenza costante all’abbassamento del costo del lavoro (salario diretto) allo smantellamento delle tutele sociali (salario indiretto) e delle pensioni (salario differito). Il credito serve esattamente a questo scopo: costringendo lo studente a offrire prestazioni lavorative gratuite o quasi, spesso attraverso la farsa degli “stages” non retribuiti, il capitale può abbassare più facilmente il costo del lavoro, attaccando i salari e le tutele di coloro che svolgono le medesime mansioni sotto contratto.
Per questo l’abolizione del credito dovrebbe essere in testa alle rivendicazioni del movimento, così come la cancellazione dell’autonomia finanziaria e didattica.
2 I lavoratori siamo noi (e basta!): uno dei passaggi più agghiaccianti dell’intera assemblea è stato quando Roggiero ha affermato a chiare lettere che per lui non c’è bisogno dell’unità tra lavoratori e studenti, poiché lo studente di oggi, vista la sua condizione precaria, è già lavoratore!!!
Dunque, secondo il nostro eroe, chissenefrega se nell’università attuale convivono ancora i figli di papà con la macchina di lusso da una parte, e dall’altra centinaia di migliaia di studenti che per pagarsi gli studi e gli affitti da rapina lavorano 5-6 ore al giorno per strada o nei ristoranti! Per il nostro eroe Roggiero siamo tutti studenti, volemose bene e cavalchiamo l’onda.
E poi, visto che lo studente è oramai l’unico, vero lavoratore (cognitivo, sia chiaro) del XXI secolo, che gliene frega a Roggiero dei 4 morti al giorno sui luoghi di lavoro: quelli tanto sono operai, residuati del novecento, quindi crepino pure e lascino spazio ai “ggiovani dell’esercito del surf”!
Che altro dire: di sicuro ci sentiamo di consigliare l’ascolto di tali interventi a chiunque ancora non si capacita di come i fasci del Blocco Studentesco si stiano radicando pericolosamente proprio tra settori significativi di studenti proletari…
In realtà se è vero, come è vero, che la condizione di molti studenti (ma non di tutti) diviene ogni giorno più simile, sia in termini di sfruttamento che di alienazione, a quella dei lavoratori, dovrebbe essere evidente a chiunque l'urgenza di riconnettere le lotte studentesche con quelle proletarie, a partire da alcune battaglie unificanti come il no alla precarietà e agli stages, la lotta contro il caro tasse e il caro-libri, nell'ottica di una vertenza generale contro il caro vita e per forti aumenti salariali. Ma si sa, per gli ultramodernisti di Uniriot questa è solo fraseologia novecentesca...
Il dibattito “reale”
Come dicevamo, fortunatamente buona parte degli interventi nei gruppi di lavoro del sabato pomeriggio sono andati in tutt’altra direzione, a dimostrazione che le farneticazioni interclassiste dei disobbedienti, seppur rappresentative di una buona fetta del movimento della Sapienza, sono del tutto minoritarie a livello nazionale. Ecco che allora, dopo aver perso il controllo dell’assemblea, Uniriot ha iniziato a perdere anche la testa. Non avendo altra arma che i loro “servizi d’ordine”, nel tardo pomeriggio sono iniziate le minacce e gli insulti nei confronti di numerosi compagni: il tutto col silenzio-assenso di Sinistra Critica, e soprattutto con l’occhio vigile ed interessato di qualche rottame dei giovani comunisti vendoliani e filo-PD. Un compagno ha addirittura raccontato di essere stato accerchiato da cinque persone per il solo fatto di aver criticato il sistema dei “corsi alternativi”… Ciò tuttavia non ha impedito a numerosi compagni di farsi ascoltare e comprendere da settori consistenti della platea.
La sinistra di classe inizia a parlarsi…
E’ di fronte a questo scenario che in serata ha preso vita, in maniera del tutto spontanea ed autoconvocata, una riunione delle realtà che non si riconoscono nella diarchia Uniriot-Sinistra Critica.
La riunione, seppur convocata in fretta e furia, ha visto la partecipazione di numerose realtà universitarie (singoli compagni della Sapienza, Tor Vergata di Roma, collettivi di Napoli, Firenze, Milano, Resistenza Universitaria, CSU) e diversi compagni della sinistra di classe (PCL, Unità Comunista, Militanz, Combat di Roma).
Un primo, embrionale momento di dialogo tra quelle realtà che a livello nazionale si muovono in maniera autonoma dalla sinistra istituzionale e in alternativa alle logiche interclassiste dei disobbedienti. Realtà spesso profondamente diverse tra loro, la cui possibilità di trovare punti di sintesi che tengano dentro tutti va tutta verificata, ma che a nostro avviso, nell’attuale fase, hanno il dovere di parlarsi e ricercare convergenze (seppur minime). In gioco oggi non è la sopravvivenza ne tantomeno il rafforzamento di questo o quel gruppo, quanto piuttosto la sopravvivenza e l’agibilità di un punto di vista autonomo e di classe nell’università, a fronte del tentativo condotto da riformisti ed opportunisti di fare terra bruciata attorno a chiunque osi parlare di comunismo.
La riunione, vista la ristrettezza dei tempi, non va molto oltre lo sfogatoio contro la condotta tenuta dalle presidenze e dai gruppi organizzati della Sapienza, ma si discute di dar vita a un azione congiunta in plenaria e di mettere in cantiere una riunione nazionale nelle settimane successive.
Ma dura poco…La finta bagarre “delegati si- delegati no”
Purtroppo, in serata, le cose cambiano. Sinistra critica, che finora aveva condiviso ogni scelta dei disobbedienti, di fronte alle difficoltà e vistasi “scavalcata a sinistra” da buona parte dell'assemblea decide di cambiare cavallo in corso d'opera, lanciando nella notte di Sabato la proposta di “fare come in Francia”, ovvero stabilire regole di rappresentanza certe e “democratiche”.
Proposta che trova subito concordi gli studenti del PCL e, almeno in parte, di RS; più fredda è la reazione del CSU, struttura che ha sempre fatto della questione delegati un cavallo di battaglia, ma che evidentemente nel contesto di Roma intuisce quanto la proposta di Sinistra Critica sia strumentale e dettata dal tentativo di eludere la sostanza delle questioni politiche; nettamente contrari invece gran parte dei collettivi e dell'area dell'autorganizzazione, in nome di un rifiuto “per principio” del metodo della rappresentanza.
Risultato: il raggruppamento di classe si divide di nuovo, tra “favorevoli” e “contrari” ai delegati, e congela il dibattito politico; Sinistra Critica tenta il colpaccio in plenaria proponendo la nuova forma organizzativa all’assemblea; i disobbedienti interrompono con la forza l’assemblea impedendone il proseguimento, e ripresentandosi la mattina seguente (domenica) blindatissimi e decisi a far passare per intero la loro linea. Nel frattempo la discussione politica evapora, coperta dal finto dibattito sulle forme organizzative, e la domenica non è più possibile neanche proporre correzioni ai “testi di sintesi” dei gruppi di lavoro scritti in nottata da una presidenza di fatto priva del benchè minimo vincolo di mandato.
Il nostro punto di vista nel merito: non c'è forma senza sostanza
Sulla vicenda dei “delegati” nel movimento pensiamo sia necessario fare chiarezza.
Come comunisti rivoluzionari non siamo mai stati contrari per principio alla definizione di forme di rappresentanza, purchè esse siano compatibili col principio e con la pratica della democrazia diretta: quindi definizione di portavoce revocabili e vincolati sempre e comunque al mandato delle assemblee, e non invece “deleghe in bianco” attraverso cui dar vita a nuove burocrazie e nuovi politicanti di mestiere, o peggio ancora a parlamentini blindati che si risolvono in intergruppi di strutture politiche che vivono come corpo separato dal movimento reale e dalle sue capacità di autorganizzazione.
Il punto però, a nostro avviso è un altro: non si può parlare di forme organizzative senza aver prima chiarito l'identità e la collocazione di classe del movimento. Prima vengono i contenuti, poi gli involucri organizzativi: fin quando, a partire dalle singole facoltà non sarà chiara la prospettiva politica che il movimento si prefigge, ovvero di alcuni minimi comuni denominatori che siano davvero“costituenti”, parlare di delegati equivale a discutere di aria fritta.
Almeno per quanto ci riguarda, riteniamo che il dibattito sull'analisi e gli obiettivi non si sia affatto risolto con le poche righe prodotte dai “workshop” di Roma, poiché, come vedremo, monche nell'analisi ed ambigue nei contenuti e nella proposta di lotta. Del resto, nel corso della due giorni è balzata agli occhi l'assoluta carenza di analisi organiche e di documenti politici da parte delle singole facoltà. Una carenza che, occorre costatarlo, è presente anche in quelle facoltà e in quelle aree di movimento collocate nel campo della sinistra di classe. Non è un dramma, se si considera il fatto che l'onda ha travolto e in parte colto di sorpresa la quasi totalità delle strutture preesistenti, ma a distanza di due mesi dallo scoppio delle mobilitazioni sarebbe il caso di iniziare un lavoro organico, possibilmente prima che il movimento rifluisca.
Dunque, la bagarre sui delegati, alla luce del profilo politico ancora primordiale con cui il movimento si è presentato a Roma, è servita soltanto a sviare ulteriormente la discussione, e ad offrire a Sinistra Critica un alibi per sottrarsi alle proprie responsabilità politiche.
Gli “esiti” di domenica mattina
In sostanza l’assemblea si chiude con un sostanziale nulla di fatto per ciò che riguarda alcune scelte fondamentali, su tutte il percorso che porterà il movimento all’appuntamento con lo sciopero generale del 12 novembre: la scelta di non scegliere fa evidentemente comodo a chi, dal quartier generale della Sapienza, proverà ancora una volta a decidere in nome di tutti
Tale approssimazione, unita al caos prodotto dalla querelle sui delegati, ha portato gran parte degli studenti “non schierati” ad abbandonare la plenaria di sabato notte confusi e disorientati, per poi non ripresentarsi la mattina seguente (alla plenaria conclusiva erano presenti meno di un quarto dei partecipanti di sabato mattina!); gli stessi resoconti dei gruppi di lavoro, pur essendo più avanzati rispetto agli orientamenti iniziali (la presidenza evidentemente non ha potuto non tener conto di quanto emerso in gran parte degli interventi) hanno provato a far convivere in maniera raffazzonata ipotesi ed opzioni politiche distanti tra loro anni luce.
Su tutto, desta particolare perplessità il fatto che nel report sulla ricerca emerga per ben due volte (al punto 3 “reddito, diritti, contratti” e al punto 6 “reclutamento”), l'accettazione dei contratti a tempo determinato per i ricercatori. Ma l'onda non doveva travolgere con la sua forza le logiche di precarietà? Se l'obiettivo finale di una lotta di tale portata diventa quello di passare dalla giungla attuale a forme di precarietà temperate con contratti della durata di due anni (che è più o meno ciò che chiedono CGIL-CISL-UIL), ci troveremmo davvero di fronte alla montagna che partorisce il topolino!
Che fare? Alcune considerazioni conclusive
E’ evidente, alla luce di quanto detto, che il movimento è a un bivio: o si rende capace di fungere da traino per la generalizzazione del conflitto ad altri settori sociali, o è destinato inevitabilmente al riflusso e alla sconfitta. Una sconfitta di cui sarebbero responsabili unicamente quei gruppi organizzati che finora si sono autonominati a capo della protesta, sfruttando i vantaggi logistici e l’esposizione mediatica della Sapienza.
I primi segnali di riflusso si sono avvertiti già nel corso di questa settimana: a Napoli l’occupazione della Federico II ha chiuso i battenti, e quella dell’Orientale si avvia sulla stessa strada a seguito di una lacerazione politica profonda tra gli occupanti e soprattutto della controffensiva di un baronato accademico parassitario, da sempre interessato unicamente a trarre vantaggi di casta dalle proteste studentesche; a Firenze la situazione è identica; nella stessa Sapienza l’occupazione sembra trascinarsi stancamente verso il traguardo…delle elezioni universitarie (a cui Uniriot tra l’altro partecipa con una propria lista: a quanto pare il rifiuto della delega va bene solo quando fa comodo…).
Se le occupazioni segnano il passo, non è detto però che debba rifluire anche la lotta, tuttaltro. Un vero movimento universitario, di classe e non studentista, dovrebbe avere la capacità di leggere la fase attuale e muoversi di conseguenza.
A nostro avviso, la fase odierna è segnata da una crisi sistemica del capitalismo: se ciò è vero, il movimento studentesco e dei ricercatori precari di questo autunno rappresenta solo l’antipasto di ciò che potrebbe esplodere nei prossimi mesi. Le prime avvisaglie già possiamo scorgerle: la crisi finanziaria si è abbattuta sull’economia reale ben prima di quanto potessero prevedere i santoni dell’economia e della finanza. Ondate di licenziamenti già sono in atto nel settore manifatturiero e in quasi tutte le principali industrie automobilistiche del vecchio e del nuovo continente; le operazioni maestose di salvataggio di istituti bancari verranno pagate ancora una volta dai soliti noti i lavoratori e le loro famiglie, attraverso un ulteriore taglio della spesa sociale. Questa miscela esplosiva potrebbe prefigurare un ondata di mobilitazioni inedita e mai vista dalla nostra generazione. Il capitalismo è al collasso, ma non si farà da parte facilmente.
E’ per questo che il movimento studentesco, per battere la congiuntura fisiologica del riflusso ed uscirne rafforzato e in condizioni di vincere, non ha altra strada che una saldatura sempre più profonda con i luoghi di lavoro e con le lotte contro lo licenziamenti, precarietà e sfruttamento.
Il dibattito della due giorni di Roma, nonostante gli innumerevoli limiti sopra elencati, ci ha consegnato un'indubbia certezza: la sinistra di classe c'è, anche nell'università, e la storia e le battaglie portate avanti dalla parte migliore del movimento studentesco (ed operaio) negli ultimi cinquant'anni continuano a rappresentare una bussola per l'orientamento politico, sia a livello teorico che pratico, per migliaia di studenti. E' da quel filo rosso, e non certo in contrapposizione ad esso, che bisogna partire, provando ad aggiornare l'analisi, i contenuti e le forme di lotta alla luce delle nuove dinamiche dell'accumulazione capitalistica e delle nuove contraddizioni da esse prodotte. Le lotte di questi mesi, in un quadro di collasso del modo di produzione capitalistico, portano inevitabilmente a ri-mettere all'ordine del giorno la necessità di un'alternativa di sistema.
Di questo occorrerebbe iniziare a discutere. E bisognerebbe iniziare prima del 12 Dicembre.
Alcuni piccoli passi in questa direzione si stanno già muovendo: in numerose facoltà si stanno organizzando dibattiti sulla crisi (come a Napoli e Milano) e assemblee unitarie studenti-lavoratori (come a scienze politiche a Firenze, dove sono intervenuti, tra gli altri, lavoratori Elektrolux e Gkn, a psicologia e a Tor Vergata a Roma, ecc.). Questi passi vanno incentivati: una prima idea potrebbe essere quella di dar vita ad assemblee unitarie studenti-lavoratori che diano voce, all'interno degli atenei, ad esperienze di lotta reale sui luoghi di lavoro fuori e contro il collaborazionismo concertativo di CGIL-CISL-UIL. Ma è altrettanto chiaro che questi passaggi vanno coordinati: e per farlo serve un soggetto che adempia a tale scopo, e che abbia pochi comuni denominatori, ma chiari: l’anticapitalismo, la necessità di comporre un fronte unitario e combattivo studenti-lavoratori; la centralità e l'irriducibilità del conflitto capitale-lavoro, discrimine quanto mai attuale nella fase storica odierna; infine, l’antifascismo di classe come pratica fondante, in contrapposizione frontale con le logiche qualunquiste del “ne rossi ne neri” o “il movimento è apolitico”.
Di tutto il resto si può discutere. Se non ora, quando?
Contro l'università dei padroni: lotta di classe!
Roma, 23-11-2008
Studenti autonomi per l’unità proletaria
In queste settimane praticamente tutte le organizzazioni della sinistra, politica e sindacale, di classe e non, hanno fatto a gara a chi tesseva meglio e di più le lodi del movimento, alcune sottolineandone quella carica di radicalità nelle parole d’ordine e nelle pratiche di lotta come da anni non se ne vedevano negli Atenei (e questo a noi è parso di gran lunga l’elemento più significativo e degno d’attenzione) altri ponendo invece l’accento, a nostro avviso oltremisura e spesso con intenti strumentali, sull’innovazione nei linguaggi e su una non meglio comprensibile “irrapresentabilità” del movimento.
Anche noi, come compagni appartenenti all’area comunista rivoluzionaria, abbiamo fin dal primo momento riconosciuto a questo movimento il merito (enorme!) della rottura di una pace sociale che negli Atenei regnava quasi ininterrotta da più di un decennio. Un merito che l’Onda si è conquistata sul campo, grazie a un proliferare di occupazioni e iniziative di lotta e a una partecipazione in piazza che l’ha resa, almeno nei numeri, il più grande movimento studentesco Italia dal 1990 (se non dal 1977) ad oggi.
Dopo due mesi di lotta e dopo due giornate di discussione nazionale (precedute e seguite da giorni e giorni di discussione nei singoli atenei e facoltà), sembrano tuttavia giunti al pettine una serie di “nodi” politici la cui risoluzione diviene per il movimento tutto ogni giorno di più necessaria e obbligatoria. Da comunisti, abbiamo a cuore non solo il presente, ma anche e soprattutto il futuro del movimento. E’ per questo che, pur nel rispetto totale dell’autonomia delle sue scelte, non intendiamo accodarci al carrozzone politicista di chi “liscia il pelo” al movimento pur di ricavarne qualche voto in più alle prossime elezioni universitarie o, in prospettiva, alle prossime europee, o di chi (peggio ancora!) “surfa” sul movimento con l’idea di poterne ricavare qualche ennesima, angusta briciola caduta dalla tavola dei baronati accademici, in termini di corsi “autogestiti” con tanto di crediti formativi (!!!).
Giunti alle soglie di dicembre (mese da sempre nefasto per le lotte studentesche), andrebbe fatto un bilancio della lotta come si è articolata finora, per individuarne le prospettive e proseguire la mobilitazione: al contrario, continuare con le tiritere dei tipo “tutto va bene, madama la marchesa” servirà solo ad accelerare il riflusso. Allo stesso tempo, pensiamo che una delle principali ricchezze del movimento consista nella sua pluralità, e soprattutto nella possibilità che questa pluralità emerga in maniera limpida agli occhi di tutti: cosa ben diversa da ciò a cui abbiamo assistito a Roma, dove due gruppi politici, disobbedienti-Uniriot e Sinistra Critica (senza dubbio maggioritari nell’Ateneo ospitante ma decisamente minoritari nell’insieme del movimento) hanno praticamente gestito a piacimento le assemblee, occupando le presidenze senza alcun mandato dell’assemblea, e dando vita, almeno sino alla rottura di sabato notte, a diplomazie segrete con tanto di rinvii reiterati delle plenarie: atteggiamenti i quali hanno infastidito non poco anche il grosso della platea “non politicizzata”.
Irrappresentabili, da chi e da cosa?
Se quest’onda dev’essere davvero “irrapresentabile” (laddove per questo termine si intenda “non rappresentabile da alcuna forza politica o sindacale che in questi anni ha affossato le lotte e prodotto arretramenti generalizzati nelle condizioni di vita e di lavoro”) ebbene essa deve tanto più riaffermare l’indisponibilità a farsi rappresentare ed eterodirigere da gruppi politici che nell’ultimo decennio hanno prodotto solo sconfitte e fallimenti.
Ci sembra invece che dietro l’ammaliante slogan “siamo irrapresentabili”, si celi in realtà l’intento di una determinata area politica (ex-post-disobbedienti di Uniriot con l'aggiunta di qualche mummia vendoliana in uscita da Rifondazione) di impedire con ogni mezzo il contatto del movimento con la politica reale, con le altre lotte sociali in corso nel paese, con la necessità impellente di accompagnare lo slogan “noi la crisi non la paghiamo” (senz’altro dirompente) con un’analisi attenta e adeguata della crisi del capitalismo in atto e, soprattutto, con una pratica conseguente tesa a costruire l’unità di classe contro il governo Berlusconi, contro il padronato (sia esso di destra o di centrosinistra) e contro le burocrazie sindacali colluse col potere. In sintesi, chi ha in queste settimane abusato maggiormente di questo slogan, sembra in realtà voler dire “il movimento è cosa nostra, dunque saremo noi soli a rappresentarlo”… E così, chiunque “osi” avviare una discussione e un confronto sui contenuti e sulla necessità di unificare le lotte viene sistematicamente bollato come “m-l”, come “residuo del novecento”, e così via...
Come se poi le teorie “partecipative” dei disobbedienti fossero un’invenzione di oggi e non rappresentassero nient’altro che una versione riveduta e (s)corretta del socialismo utopistico pre-marxiano, dunque ottocentesco (do you remember Fourier?)…
La due giorni di assemblea
L’assemblea della Sapienza, da questo punto di vista, è stata paradigmatica e al tempo stesso indicativa dello stato del movimento.
Dopo una plenaria durata poco più di mezz’ora (con 4 interventi rigorosamente blindati), il dibattito si è subito trasferito nei tre gruppi di lavoro (welfare e diritto allo studio; didattica; formazione), non a caso ribattezzati “workshop” per sottolinearne il carattere più seminariale che decisionale.
In questa sede sono apparsi subito chiari i tentativi da parte delle presidenze (autoproclamatesi senza alcun mandato dell'assemblea) di eludere la discussione sui punti nevralgici: sulla modalità di partecipazione allo sciopero generale del 12 dicembre; sulla costruzione di momenti di confronto ed iniziative di lotta comuni col mondo del lavoro; sulla necessità di articolare una battaglia di lungo respiro contro il precariato nell’università e contro l'attacco al diritto allo studio (mense, residenze, trasporti, ecc.) inteso non come generica “sottrazione di reddito”, bensì come strumento di selezione di classe e di espulsione degli studenti lavoratori e proletari dagli atenei; infine, sulla necessità di una messa in discussione radicale del credito formativo, inteso come metro di valutazione di tipo produttivistico e aziendale, dunque padronale…
Non tutto però è andato come negli auspici delle presidenze autoproclamate: nel corso del dibattito pomeridiano, soprattutto nei gruppi welfare e didattica, si sono moltiplicati interventi di studenti e compagni che affrontavano in un ottica di classe le tematiche sopra accennate, al punto di costringere le presidenze a stravolgere più volte l’ordine degli interventi “per evitare che gli m-l prendessero il sopravvento nell’assemblea”. Lo stesso Raparelli, noto capo dei disobbedienti romani molto avvezzo alle presenze negli studi televisivi (un nuovo Caruso alle porte?), è stato notato mentre strigliava un gruppetto di accoliti ai bordi della sala del gruppo “welfare”, lasciandosi sfuggire che “l’assemblea gli stava sfuggendo di mano e non si poteva andare avanti così…”.
Ma quali i contenuti della proposta di Uniriot?
Sostanzialmente due, semplici semplici, i quali sono emersi in maniera chiara dall’intervento di tal Gigi Roggiero, proveniente dal nord-est:
1- Autoriforma, autoriforma, autoriforma: anche qui la parola sembra molto affascinante. Peccato che a pronunciarla siano in primo luogo coloro che già nel 1997, celandosi dietro questa innocua formuletta, accettarono la Riforma Berlinguer, che introduceva l’autonomia didattica e finanziaria per gli Atenei e il sistema del credito formativo. Ancora oggi Raparelli, Roggiero e compagnia continuano a vedere opportunità e spazi di “autoformazione” in quello che in realtà non è altro che un singolo tassello del puzzle messo a punto dalla borghesia negli ultimi vent’anni: un tassello che rende l’istruzione funzionale alla competizione capitalistica globale, dunque strumento per garantire e incentivare la tendenza costante all’abbassamento del costo del lavoro (salario diretto) allo smantellamento delle tutele sociali (salario indiretto) e delle pensioni (salario differito). Il credito serve esattamente a questo scopo: costringendo lo studente a offrire prestazioni lavorative gratuite o quasi, spesso attraverso la farsa degli “stages” non retribuiti, il capitale può abbassare più facilmente il costo del lavoro, attaccando i salari e le tutele di coloro che svolgono le medesime mansioni sotto contratto.
Per questo l’abolizione del credito dovrebbe essere in testa alle rivendicazioni del movimento, così come la cancellazione dell’autonomia finanziaria e didattica.
2 I lavoratori siamo noi (e basta!): uno dei passaggi più agghiaccianti dell’intera assemblea è stato quando Roggiero ha affermato a chiare lettere che per lui non c’è bisogno dell’unità tra lavoratori e studenti, poiché lo studente di oggi, vista la sua condizione precaria, è già lavoratore!!!
Dunque, secondo il nostro eroe, chissenefrega se nell’università attuale convivono ancora i figli di papà con la macchina di lusso da una parte, e dall’altra centinaia di migliaia di studenti che per pagarsi gli studi e gli affitti da rapina lavorano 5-6 ore al giorno per strada o nei ristoranti! Per il nostro eroe Roggiero siamo tutti studenti, volemose bene e cavalchiamo l’onda.
E poi, visto che lo studente è oramai l’unico, vero lavoratore (cognitivo, sia chiaro) del XXI secolo, che gliene frega a Roggiero dei 4 morti al giorno sui luoghi di lavoro: quelli tanto sono operai, residuati del novecento, quindi crepino pure e lascino spazio ai “ggiovani dell’esercito del surf”!
Che altro dire: di sicuro ci sentiamo di consigliare l’ascolto di tali interventi a chiunque ancora non si capacita di come i fasci del Blocco Studentesco si stiano radicando pericolosamente proprio tra settori significativi di studenti proletari…
In realtà se è vero, come è vero, che la condizione di molti studenti (ma non di tutti) diviene ogni giorno più simile, sia in termini di sfruttamento che di alienazione, a quella dei lavoratori, dovrebbe essere evidente a chiunque l'urgenza di riconnettere le lotte studentesche con quelle proletarie, a partire da alcune battaglie unificanti come il no alla precarietà e agli stages, la lotta contro il caro tasse e il caro-libri, nell'ottica di una vertenza generale contro il caro vita e per forti aumenti salariali. Ma si sa, per gli ultramodernisti di Uniriot questa è solo fraseologia novecentesca...
Il dibattito “reale”
Come dicevamo, fortunatamente buona parte degli interventi nei gruppi di lavoro del sabato pomeriggio sono andati in tutt’altra direzione, a dimostrazione che le farneticazioni interclassiste dei disobbedienti, seppur rappresentative di una buona fetta del movimento della Sapienza, sono del tutto minoritarie a livello nazionale. Ecco che allora, dopo aver perso il controllo dell’assemblea, Uniriot ha iniziato a perdere anche la testa. Non avendo altra arma che i loro “servizi d’ordine”, nel tardo pomeriggio sono iniziate le minacce e gli insulti nei confronti di numerosi compagni: il tutto col silenzio-assenso di Sinistra Critica, e soprattutto con l’occhio vigile ed interessato di qualche rottame dei giovani comunisti vendoliani e filo-PD. Un compagno ha addirittura raccontato di essere stato accerchiato da cinque persone per il solo fatto di aver criticato il sistema dei “corsi alternativi”… Ciò tuttavia non ha impedito a numerosi compagni di farsi ascoltare e comprendere da settori consistenti della platea.
La sinistra di classe inizia a parlarsi…
E’ di fronte a questo scenario che in serata ha preso vita, in maniera del tutto spontanea ed autoconvocata, una riunione delle realtà che non si riconoscono nella diarchia Uniriot-Sinistra Critica.
La riunione, seppur convocata in fretta e furia, ha visto la partecipazione di numerose realtà universitarie (singoli compagni della Sapienza, Tor Vergata di Roma, collettivi di Napoli, Firenze, Milano, Resistenza Universitaria, CSU) e diversi compagni della sinistra di classe (PCL, Unità Comunista, Militanz, Combat di Roma).
Un primo, embrionale momento di dialogo tra quelle realtà che a livello nazionale si muovono in maniera autonoma dalla sinistra istituzionale e in alternativa alle logiche interclassiste dei disobbedienti. Realtà spesso profondamente diverse tra loro, la cui possibilità di trovare punti di sintesi che tengano dentro tutti va tutta verificata, ma che a nostro avviso, nell’attuale fase, hanno il dovere di parlarsi e ricercare convergenze (seppur minime). In gioco oggi non è la sopravvivenza ne tantomeno il rafforzamento di questo o quel gruppo, quanto piuttosto la sopravvivenza e l’agibilità di un punto di vista autonomo e di classe nell’università, a fronte del tentativo condotto da riformisti ed opportunisti di fare terra bruciata attorno a chiunque osi parlare di comunismo.
La riunione, vista la ristrettezza dei tempi, non va molto oltre lo sfogatoio contro la condotta tenuta dalle presidenze e dai gruppi organizzati della Sapienza, ma si discute di dar vita a un azione congiunta in plenaria e di mettere in cantiere una riunione nazionale nelle settimane successive.
Ma dura poco…La finta bagarre “delegati si- delegati no”
Purtroppo, in serata, le cose cambiano. Sinistra critica, che finora aveva condiviso ogni scelta dei disobbedienti, di fronte alle difficoltà e vistasi “scavalcata a sinistra” da buona parte dell'assemblea decide di cambiare cavallo in corso d'opera, lanciando nella notte di Sabato la proposta di “fare come in Francia”, ovvero stabilire regole di rappresentanza certe e “democratiche”.
Proposta che trova subito concordi gli studenti del PCL e, almeno in parte, di RS; più fredda è la reazione del CSU, struttura che ha sempre fatto della questione delegati un cavallo di battaglia, ma che evidentemente nel contesto di Roma intuisce quanto la proposta di Sinistra Critica sia strumentale e dettata dal tentativo di eludere la sostanza delle questioni politiche; nettamente contrari invece gran parte dei collettivi e dell'area dell'autorganizzazione, in nome di un rifiuto “per principio” del metodo della rappresentanza.
Risultato: il raggruppamento di classe si divide di nuovo, tra “favorevoli” e “contrari” ai delegati, e congela il dibattito politico; Sinistra Critica tenta il colpaccio in plenaria proponendo la nuova forma organizzativa all’assemblea; i disobbedienti interrompono con la forza l’assemblea impedendone il proseguimento, e ripresentandosi la mattina seguente (domenica) blindatissimi e decisi a far passare per intero la loro linea. Nel frattempo la discussione politica evapora, coperta dal finto dibattito sulle forme organizzative, e la domenica non è più possibile neanche proporre correzioni ai “testi di sintesi” dei gruppi di lavoro scritti in nottata da una presidenza di fatto priva del benchè minimo vincolo di mandato.
Il nostro punto di vista nel merito: non c'è forma senza sostanza
Sulla vicenda dei “delegati” nel movimento pensiamo sia necessario fare chiarezza.
Come comunisti rivoluzionari non siamo mai stati contrari per principio alla definizione di forme di rappresentanza, purchè esse siano compatibili col principio e con la pratica della democrazia diretta: quindi definizione di portavoce revocabili e vincolati sempre e comunque al mandato delle assemblee, e non invece “deleghe in bianco” attraverso cui dar vita a nuove burocrazie e nuovi politicanti di mestiere, o peggio ancora a parlamentini blindati che si risolvono in intergruppi di strutture politiche che vivono come corpo separato dal movimento reale e dalle sue capacità di autorganizzazione.
Il punto però, a nostro avviso è un altro: non si può parlare di forme organizzative senza aver prima chiarito l'identità e la collocazione di classe del movimento. Prima vengono i contenuti, poi gli involucri organizzativi: fin quando, a partire dalle singole facoltà non sarà chiara la prospettiva politica che il movimento si prefigge, ovvero di alcuni minimi comuni denominatori che siano davvero“costituenti”, parlare di delegati equivale a discutere di aria fritta.
Almeno per quanto ci riguarda, riteniamo che il dibattito sull'analisi e gli obiettivi non si sia affatto risolto con le poche righe prodotte dai “workshop” di Roma, poiché, come vedremo, monche nell'analisi ed ambigue nei contenuti e nella proposta di lotta. Del resto, nel corso della due giorni è balzata agli occhi l'assoluta carenza di analisi organiche e di documenti politici da parte delle singole facoltà. Una carenza che, occorre costatarlo, è presente anche in quelle facoltà e in quelle aree di movimento collocate nel campo della sinistra di classe. Non è un dramma, se si considera il fatto che l'onda ha travolto e in parte colto di sorpresa la quasi totalità delle strutture preesistenti, ma a distanza di due mesi dallo scoppio delle mobilitazioni sarebbe il caso di iniziare un lavoro organico, possibilmente prima che il movimento rifluisca.
Dunque, la bagarre sui delegati, alla luce del profilo politico ancora primordiale con cui il movimento si è presentato a Roma, è servita soltanto a sviare ulteriormente la discussione, e ad offrire a Sinistra Critica un alibi per sottrarsi alle proprie responsabilità politiche.
Gli “esiti” di domenica mattina
In sostanza l’assemblea si chiude con un sostanziale nulla di fatto per ciò che riguarda alcune scelte fondamentali, su tutte il percorso che porterà il movimento all’appuntamento con lo sciopero generale del 12 novembre: la scelta di non scegliere fa evidentemente comodo a chi, dal quartier generale della Sapienza, proverà ancora una volta a decidere in nome di tutti
Tale approssimazione, unita al caos prodotto dalla querelle sui delegati, ha portato gran parte degli studenti “non schierati” ad abbandonare la plenaria di sabato notte confusi e disorientati, per poi non ripresentarsi la mattina seguente (alla plenaria conclusiva erano presenti meno di un quarto dei partecipanti di sabato mattina!); gli stessi resoconti dei gruppi di lavoro, pur essendo più avanzati rispetto agli orientamenti iniziali (la presidenza evidentemente non ha potuto non tener conto di quanto emerso in gran parte degli interventi) hanno provato a far convivere in maniera raffazzonata ipotesi ed opzioni politiche distanti tra loro anni luce.
Su tutto, desta particolare perplessità il fatto che nel report sulla ricerca emerga per ben due volte (al punto 3 “reddito, diritti, contratti” e al punto 6 “reclutamento”), l'accettazione dei contratti a tempo determinato per i ricercatori. Ma l'onda non doveva travolgere con la sua forza le logiche di precarietà? Se l'obiettivo finale di una lotta di tale portata diventa quello di passare dalla giungla attuale a forme di precarietà temperate con contratti della durata di due anni (che è più o meno ciò che chiedono CGIL-CISL-UIL), ci troveremmo davvero di fronte alla montagna che partorisce il topolino!
Che fare? Alcune considerazioni conclusive
E’ evidente, alla luce di quanto detto, che il movimento è a un bivio: o si rende capace di fungere da traino per la generalizzazione del conflitto ad altri settori sociali, o è destinato inevitabilmente al riflusso e alla sconfitta. Una sconfitta di cui sarebbero responsabili unicamente quei gruppi organizzati che finora si sono autonominati a capo della protesta, sfruttando i vantaggi logistici e l’esposizione mediatica della Sapienza.
I primi segnali di riflusso si sono avvertiti già nel corso di questa settimana: a Napoli l’occupazione della Federico II ha chiuso i battenti, e quella dell’Orientale si avvia sulla stessa strada a seguito di una lacerazione politica profonda tra gli occupanti e soprattutto della controffensiva di un baronato accademico parassitario, da sempre interessato unicamente a trarre vantaggi di casta dalle proteste studentesche; a Firenze la situazione è identica; nella stessa Sapienza l’occupazione sembra trascinarsi stancamente verso il traguardo…delle elezioni universitarie (a cui Uniriot tra l’altro partecipa con una propria lista: a quanto pare il rifiuto della delega va bene solo quando fa comodo…).
Se le occupazioni segnano il passo, non è detto però che debba rifluire anche la lotta, tuttaltro. Un vero movimento universitario, di classe e non studentista, dovrebbe avere la capacità di leggere la fase attuale e muoversi di conseguenza.
A nostro avviso, la fase odierna è segnata da una crisi sistemica del capitalismo: se ciò è vero, il movimento studentesco e dei ricercatori precari di questo autunno rappresenta solo l’antipasto di ciò che potrebbe esplodere nei prossimi mesi. Le prime avvisaglie già possiamo scorgerle: la crisi finanziaria si è abbattuta sull’economia reale ben prima di quanto potessero prevedere i santoni dell’economia e della finanza. Ondate di licenziamenti già sono in atto nel settore manifatturiero e in quasi tutte le principali industrie automobilistiche del vecchio e del nuovo continente; le operazioni maestose di salvataggio di istituti bancari verranno pagate ancora una volta dai soliti noti i lavoratori e le loro famiglie, attraverso un ulteriore taglio della spesa sociale. Questa miscela esplosiva potrebbe prefigurare un ondata di mobilitazioni inedita e mai vista dalla nostra generazione. Il capitalismo è al collasso, ma non si farà da parte facilmente.
E’ per questo che il movimento studentesco, per battere la congiuntura fisiologica del riflusso ed uscirne rafforzato e in condizioni di vincere, non ha altra strada che una saldatura sempre più profonda con i luoghi di lavoro e con le lotte contro lo licenziamenti, precarietà e sfruttamento.
Il dibattito della due giorni di Roma, nonostante gli innumerevoli limiti sopra elencati, ci ha consegnato un'indubbia certezza: la sinistra di classe c'è, anche nell'università, e la storia e le battaglie portate avanti dalla parte migliore del movimento studentesco (ed operaio) negli ultimi cinquant'anni continuano a rappresentare una bussola per l'orientamento politico, sia a livello teorico che pratico, per migliaia di studenti. E' da quel filo rosso, e non certo in contrapposizione ad esso, che bisogna partire, provando ad aggiornare l'analisi, i contenuti e le forme di lotta alla luce delle nuove dinamiche dell'accumulazione capitalistica e delle nuove contraddizioni da esse prodotte. Le lotte di questi mesi, in un quadro di collasso del modo di produzione capitalistico, portano inevitabilmente a ri-mettere all'ordine del giorno la necessità di un'alternativa di sistema.
Di questo occorrerebbe iniziare a discutere. E bisognerebbe iniziare prima del 12 Dicembre.
Alcuni piccoli passi in questa direzione si stanno già muovendo: in numerose facoltà si stanno organizzando dibattiti sulla crisi (come a Napoli e Milano) e assemblee unitarie studenti-lavoratori (come a scienze politiche a Firenze, dove sono intervenuti, tra gli altri, lavoratori Elektrolux e Gkn, a psicologia e a Tor Vergata a Roma, ecc.). Questi passi vanno incentivati: una prima idea potrebbe essere quella di dar vita ad assemblee unitarie studenti-lavoratori che diano voce, all'interno degli atenei, ad esperienze di lotta reale sui luoghi di lavoro fuori e contro il collaborazionismo concertativo di CGIL-CISL-UIL. Ma è altrettanto chiaro che questi passaggi vanno coordinati: e per farlo serve un soggetto che adempia a tale scopo, e che abbia pochi comuni denominatori, ma chiari: l’anticapitalismo, la necessità di comporre un fronte unitario e combattivo studenti-lavoratori; la centralità e l'irriducibilità del conflitto capitale-lavoro, discrimine quanto mai attuale nella fase storica odierna; infine, l’antifascismo di classe come pratica fondante, in contrapposizione frontale con le logiche qualunquiste del “ne rossi ne neri” o “il movimento è apolitico”.
Di tutto il resto si può discutere. Se non ora, quando?
Contro l'università dei padroni: lotta di classe!
Roma, 23-11-2008
Studenti autonomi per l’unità proletaria
APPELLO A TUTTE LE REALTÀ STUDENTESCHE IN LOTTA
riceviamo e pubblichiamo....
RILANCIAMO LA LOTTA AD OLTRANZA FINO AL RITIRO
DI TUTTI I PROVVEDIMENTI SULLA SCUOLA!
INTERVENIAMO IN TUTTE LE MOBILITAZIONI
E ASSEMBLEE STUDENTESCHE
CON QUESTE PAROLE D'ORDINE,
PER COSTRUIRE
UN COORDINAMENTO NAZIONALE DELLE LOTTE!
SOLO LA LOTTA PAGA, ORGANIZZIAMOCI!
APPELLO
A TUTTE LE REALTÀ STUDENTESCHE IN LOTTA
Costruiamo un coordinamento nazionale delle lotte studentesche
In tutta Italia sono sorti, in questi mesi, importanti momenti di lotta contro il massacro dell'istruzione pubblica: da decenni il nostro Paese non conosceva un'ondata di lotta di tali dimensioni. La maggioranza delle università italiane è in stato di agitazione: occupazioni, autogestioni, assemblee permanenti. Sono centinaia gli istituti superiori occupati o in mobilitazione. Ogni giorno nelle varie città d'Italia ci sono cortei, manifestazioni studentesche, momenti di protesta, lezioni all'aperto. E' evidente che il governo non intende, nella sostanza, arretrare e prosegue nella stessa direzione di marcia: drastico taglio (8 miliardi) dei finanziamenti all'istruzione pubblica; privatizzazione dell'università (gli atenei diventeranno fondazioni di diritto privato, con il conseguente rincaro delle tasse senza tetti limite: si potrà arrivare a tasse annuali di decine di migliaia di euro); taglio di più di 130 mila posti di lavoro nella scuola (che vanno ad aggiungersi ai 47 mila del precedente governo) con conseguente scadimento della qualità della scuola pubblica, a tutto vantaggio delle scuole private per i figli dei ricchi; introduzione del maestro unico alle elementari e cancellazione del tempo pieno; chiusura/accorpamento degli istituti con meno di 300/500 iscritti. Per vincere, è necessario organizzarsi e coordinarsi, come insegna la vittoria degli studenti francesi che, nella primavera del 2006, riuscirono a mettere in ginocchio il governo e imporre il ritiro delle leggi che aggravavano il lavoro precario (Cpe). In Francia gli studenti vinsero anche perché si diedero un coordinamento di lotta nazionale, costruito attraverso un percorso democratico che prevedeva l'elezione di delegati delle varie realtà di lotta. Dobbiamo seguire lo stesso esempio: ogni scuola o facoltà in mobilitazione elegga, attraverso assemblea, un numero di delegati proporzionale al numero dei partecipanti (un delegato ogni 50 studenti riuniti in assemblea). I delegati si faranno portavoce delle proposte emerse in assemblea e decideranno con gli altri delegati i momenti successivi della lotta. Solo con l'organizzazione e la democrazia si vince.
Continuiamo la lotta ad oltranza fino al ritiro
di tutti i provvedimenti su scuola e università
Ma l'esempio degli studenti francesi ci dà un'altra indicazione importante: solo la lotta ad oltranza paga. Gli studenti riuscirono a far arretrare il governo solo perché accanto a loro scesero in campo i lavoratori - prima i precari, poi tutti gli altri - e bloccarono il Paese fino a costringere il governo alla resa. Giudichiamo negativamente la proposta di un referendum che ha solo lo scopo di smorzare le lotte in corso. Il referendum potrebbe svolgersi solo nel 2010, cioè a massacro concluso. Non solo: non potrebbe, per legge, mettere in discussione il punto centrale, cioè i tagli ai finanziamenti alla scuola pubblica (il referendum non può riguardare "questioni che attengono al bilancio dello Stato"). Soprattutto, rischierebbe di tradursi in un boomerang: nessun referendum avviene in un regime di reale discussione democratica delle posizioni in campo: chi controlla i mezzi di comunicazione e ha risorse per fare campagne miliardarie potrà conquistare consenso con grande facilità. L'unica strada che ci resta da percorrere è quella della lotta ad oltranza fino al ritiro di tutti i provvedimenti sulla scuola e l'università. Questo vuol dire, sul terreno studentesco, che dovremo rilanciare sia nuovi scioperi e manifestazioni nazionali, sia occupazioni e manifestazioni locali. Ma non dobbiamo procedere in ordine sparso: occorre organizzarci nazionalmente, anche per far fronte a provocazioni e attacchi polizieschi (si pensi alle manganellate nei confronti di manifestanti inermi e alle provocazioni dei gruppi fascisti). Anche per questo è urgente la costituzione di un coordinamento nazionale di lotta.
Uniamo le nostre lotte a quelle dei lavoratori!
Il motivo per cui stanno massacrando la scuola pubblica è una ragione di risparmio, sulla pelle degli studenti e dei lavoratori. Intendono farci pagare la crisi dei banchieri e mirano a risparmiare sui servizi per tutti, scuola e sanità in primis, mentre le spese militari continuano ad aumentare. Quello che stiamo subendo nella scuola rientra in un progetto più complessivo che intende scaricare sulle spalle dei lavoratori e delle famiglie dei lavoratori i costi della crisi. Se nella scuola è previsto il taglio di centinaia di posti di lavoro (che penalizzeranno i precari, ma non solo), similmente sono sempre di più le aziende che licenziano e mandano a casa centinaia di lavoratori. Non possiamo accettare che a pagare la crisi siano i lavoratori e i figli dei lavoratori! La crisi la paghino i banchieri! E' per questo che è necessario unire le lotte. Nelle prossime settimane scenderanno in sciopero e manifesteranno i lavoratori del pubblico impiego, dell'università, gli operai (a partire dallo sciopero del 12 dicembre). E' necessario che studenti e lavoratori procedano di pari passo, fino a un grande sciopero nazionale di tutto il mondo del lavoro che blocchi l'Italia e imponga al governo le ragioni dei lavoratori, cioè della maggioranza della popolazione. Anche per questo occorre darci da subito una strutturazione nazionale. L'esperienza francese ci insegna che studenti e lavoratori uniti non temono rivali.
Nella tua scuola non esiste ancora
un collettivo di Studenti in lotta?
Costruiscilo tu!
Scrivi a nazionale@studentinlotta.org
e ti invieremo tutto il materiale necessario,
mettendoti in contatto coi collettivi più vicini
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In tutta Italia sono sorti, in questi mesi, importanti momenti di lotta contro il massacro dell'istruzione pubblica: da decenni il nostro Paese non conosceva un'ondata di lotta di tali dimensioni. La maggioranza delle università italiane è in stato di agitazione: occupazioni, autogestioni, assemblee permanenti. Sono centinaia gli istituti superiori occupati o in mobilitazione. Ogni giorno nelle varie città d'Italia ci sono cortei, manifestazioni studentesche, momenti di protesta, lezioni all'aperto. E' evidente che il governo non intende, nella sostanza, arretrare e prosegue nella stessa direzione di marcia: drastico taglio (8 miliardi) dei finanziamenti all'istruzione pubblica; privatizzazione dell'università (gli atenei diventeranno fondazioni di diritto privato, con il conseguente rincaro delle tasse senza tetti limite: si potrà arrivare a tasse annuali di decine di migliaia di euro); taglio di più di 130 mila posti di lavoro nella scuola (che vanno ad aggiungersi ai 47 mila del precedente governo) con conseguente scadimento della qualità della scuola pubblica, a tutto vantaggio delle scuole private per i figli dei ricchi; introduzione del maestro unico alle elementari e cancellazione del tempo pieno; chiusura/accorpamento degli istituti con meno di 300/500 iscritti. Per vincere, è necessario organizzarsi e coordinarsi, come insegna la vittoria degli studenti francesi che, nella primavera del 2006, riuscirono a mettere in ginocchio il governo e imporre il ritiro delle leggi che aggravavano il lavoro precario (Cpe). In Francia gli studenti vinsero anche perché si diedero un coordinamento di lotta nazionale, costruito attraverso un percorso democratico che prevedeva l'elezione di delegati delle varie realtà di lotta. Dobbiamo seguire lo stesso esempio: ogni scuola o facoltà in mobilitazione elegga, attraverso assemblea, un numero di delegati proporzionale al numero dei partecipanti (un delegato ogni 50 studenti riuniti in assemblea). I delegati si faranno portavoce delle proposte emerse in assemblea e decideranno con gli altri delegati i momenti successivi della lotta. Solo con l'organizzazione e la democrazia si vince.
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Ma l'esempio degli studenti francesi ci dà un'altra indicazione importante: solo la lotta ad oltranza paga. Gli studenti riuscirono a far arretrare il governo solo perché accanto a loro scesero in campo i lavoratori - prima i precari, poi tutti gli altri - e bloccarono il Paese fino a costringere il governo alla resa. Giudichiamo negativamente la proposta di un referendum che ha solo lo scopo di smorzare le lotte in corso. Il referendum potrebbe svolgersi solo nel 2010, cioè a massacro concluso. Non solo: non potrebbe, per legge, mettere in discussione il punto centrale, cioè i tagli ai finanziamenti alla scuola pubblica (il referendum non può riguardare "questioni che attengono al bilancio dello Stato"). Soprattutto, rischierebbe di tradursi in un boomerang: nessun referendum avviene in un regime di reale discussione democratica delle posizioni in campo: chi controlla i mezzi di comunicazione e ha risorse per fare campagne miliardarie potrà conquistare consenso con grande facilità. L'unica strada che ci resta da percorrere è quella della lotta ad oltranza fino al ritiro di tutti i provvedimenti sulla scuola e l'università. Questo vuol dire, sul terreno studentesco, che dovremo rilanciare sia nuovi scioperi e manifestazioni nazionali, sia occupazioni e manifestazioni locali. Ma non dobbiamo procedere in ordine sparso: occorre organizzarci nazionalmente, anche per far fronte a provocazioni e attacchi polizieschi (si pensi alle manganellate nei confronti di manifestanti inermi e alle provocazioni dei gruppi fascisti). Anche per questo è urgente la costituzione di un coordinamento nazionale di lotta.
Uniamo le nostre lotte a quelle dei lavoratori!
Il motivo per cui stanno massacrando la scuola pubblica è una ragione di risparmio, sulla pelle degli studenti e dei lavoratori. Intendono farci pagare la crisi dei banchieri e mirano a risparmiare sui servizi per tutti, scuola e sanità in primis, mentre le spese militari continuano ad aumentare. Quello che stiamo subendo nella scuola rientra in un progetto più complessivo che intende scaricare sulle spalle dei lavoratori e delle famiglie dei lavoratori i costi della crisi. Se nella scuola è previsto il taglio di centinaia di posti di lavoro (che penalizzeranno i precari, ma non solo), similmente sono sempre di più le aziende che licenziano e mandano a casa centinaia di lavoratori. Non possiamo accettare che a pagare la crisi siano i lavoratori e i figli dei lavoratori! La crisi la paghino i banchieri! E' per questo che è necessario unire le lotte. Nelle prossime settimane scenderanno in sciopero e manifesteranno i lavoratori del pubblico impiego, dell'università, gli operai (a partire dallo sciopero del 12 dicembre). E' necessario che studenti e lavoratori procedano di pari passo, fino a un grande sciopero nazionale di tutto il mondo del lavoro che blocchi l'Italia e imponga al governo le ragioni dei lavoratori, cioè della maggioranza della popolazione. Anche per questo occorre darci da subito una strutturazione nazionale. L'esperienza francese ci insegna che studenti e lavoratori uniti non temono rivali.
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Fiat-SATA licenzia gli operai militanti: situazione sempre più insostenbile
Mi chiamo Donatantonio Auria e sono un operaio della SATA licenziato da circa un anno. Con grande tempismo l’azienda mi ha buttato fuori appena ha saputo del mio coinvolgimento in un’inchiesta su terrorismo e sovversione. A niente è servito che il giudice di quell’indagine escludesse quasi subito sia me che gli altri operai SATA coinvolti, perché eravamo completamente estranei ai fatti indagati. La SATA ha continuato a tenermi fuori dallo stabilimento, già dimostrando con questo atteggiamento che la vera ragione del mio licenziamento non era l’inchiesta, ma il fatto che io fossi un operaio attivo nella difesa dei diritti degli operai.
Da quel momento ho fatto tutti i passaggi legali che si fanno per ritornare al proprio posto di lavoro in questi casi. Il mio sindacato, la FLMUniti-CUB, ha accusato la SATA di comportamento antisindacale, ma la magistratura ha rigettato il ricorso, perché l’FLMUniti non sarebbe un sindacato “nazionale”. Ho allora fatto ricorso al “700” per la riammissione d’urgenza al lavoro per i gravi impedimenti che la perdita del salario mi stava causando. Il giudice ha rigettato anche questo ricorso spiegandomi che il fatto che io non percepissi il salario non era di per sé “un grave impedimento” per me, per mia moglie e per i miei tre figli a carico.
Attualmente sto facendo ricorso contro la prima sentenza sul 700 e il 27 novembre si è avuta la prima udienza del nuovo ricorso legale. In quella sede, il mio avvocato ha fatto presente al giudice che il presupposto fondamentale del mio licenziamento (presupposto già di per sé illegittimo dato che uno non può essere licenziato solo in quanto indagato, né rinviato a giudizio, né condannato) era decaduto da mesi, precisamente da marzo 2008. Quindi, chiedeva di tenerne conto nel ricorso attuale sul 700. E qui la SATA, tramite i suoi avvocati ha rilanciato.
Ha presentato al giudice un documento politico pubblico di cui io sono uno dei firmatari, in cui si afferma la necessità nell’attuale crisi economica che gli operai costruiscano una propria organizzazione politica indipendente, un proprio partito. E’ un appello pubblico su cui si può dissentire, ma non lo si può certo presentare come “corpo di reato”, almeno fino a quando in Italia sarà formalmente garantita la libertà di opinione e di organizzazione politica. Invece, la Fiat è andata tranquillamente oltre. Pur ammettendo che il mio comportamento non ha alcuna rilevanza penale, gli avvocati della Fiat hanno giustificato il mio licenziamento sulla base delle mie opinioni politiche, sulla base della mia convinzione, condivisa da tanti altri operai, che questo modo di produzione ci sta portando alla rovina e che perciò deve essere superato. Io e gli altri miei compagni licenziati abbiamo sempre sostenuto che il vero motivo del licenziamento non era il coinvolgimento nell’inchiesta, ma il fatto che la Fiat ha voluto liberarsi di noi che abbiamo sempre difeso senza compromessi gli interessi di tutti gli operai. Con quest’ultimo atto, la Fiat-Sata ha definitivamente gettato la maschera. Il vero motivo per cui mi tiene fuori la fabbrica e senza salario sono le mie convinzioni politiche, convinzioni da me maturate nel corso delle lotte che da anni si svolgono a Melfi.
Siamo alla persecuzione delle opinioni. Senza potermi accusare di nessun comportamento concreto, sanzionabile penalmente o contrattualmente, la Fiat pretende di licenziarmi per le mie opinioni politiche, liberamente e legittimamente espresse.
In ogni caso la prossima sentenza, ci farà sapere se per la magistratura di Melfi l’operaio che ha opinioni diverse dal proprio padrone compie per questo un reato che va punito col licenziamento.
In realtà, nonostante che nel primo pronunciamento sul 700 si è arrivati a sostenere che io e la mia famiglia possiamo tranquillamente campare, in attesa della sentenza di merito, con i quattro soldi di liquidazione che ho preso, spero che i giudici di Melfi non asseconderanno la pretesa della Fiat di licenziare tutti gli operai che hanno opinioni non gradite all’azienda.
Avigliano, 28/08/2008
Donatantonio Auria
Da quel momento ho fatto tutti i passaggi legali che si fanno per ritornare al proprio posto di lavoro in questi casi. Il mio sindacato, la FLMUniti-CUB, ha accusato la SATA di comportamento antisindacale, ma la magistratura ha rigettato il ricorso, perché l’FLMUniti non sarebbe un sindacato “nazionale”. Ho allora fatto ricorso al “700” per la riammissione d’urgenza al lavoro per i gravi impedimenti che la perdita del salario mi stava causando. Il giudice ha rigettato anche questo ricorso spiegandomi che il fatto che io non percepissi il salario non era di per sé “un grave impedimento” per me, per mia moglie e per i miei tre figli a carico.
Attualmente sto facendo ricorso contro la prima sentenza sul 700 e il 27 novembre si è avuta la prima udienza del nuovo ricorso legale. In quella sede, il mio avvocato ha fatto presente al giudice che il presupposto fondamentale del mio licenziamento (presupposto già di per sé illegittimo dato che uno non può essere licenziato solo in quanto indagato, né rinviato a giudizio, né condannato) era decaduto da mesi, precisamente da marzo 2008. Quindi, chiedeva di tenerne conto nel ricorso attuale sul 700. E qui la SATA, tramite i suoi avvocati ha rilanciato.
Ha presentato al giudice un documento politico pubblico di cui io sono uno dei firmatari, in cui si afferma la necessità nell’attuale crisi economica che gli operai costruiscano una propria organizzazione politica indipendente, un proprio partito. E’ un appello pubblico su cui si può dissentire, ma non lo si può certo presentare come “corpo di reato”, almeno fino a quando in Italia sarà formalmente garantita la libertà di opinione e di organizzazione politica. Invece, la Fiat è andata tranquillamente oltre. Pur ammettendo che il mio comportamento non ha alcuna rilevanza penale, gli avvocati della Fiat hanno giustificato il mio licenziamento sulla base delle mie opinioni politiche, sulla base della mia convinzione, condivisa da tanti altri operai, che questo modo di produzione ci sta portando alla rovina e che perciò deve essere superato. Io e gli altri miei compagni licenziati abbiamo sempre sostenuto che il vero motivo del licenziamento non era il coinvolgimento nell’inchiesta, ma il fatto che la Fiat ha voluto liberarsi di noi che abbiamo sempre difeso senza compromessi gli interessi di tutti gli operai. Con quest’ultimo atto, la Fiat-Sata ha definitivamente gettato la maschera. Il vero motivo per cui mi tiene fuori la fabbrica e senza salario sono le mie convinzioni politiche, convinzioni da me maturate nel corso delle lotte che da anni si svolgono a Melfi.
Siamo alla persecuzione delle opinioni. Senza potermi accusare di nessun comportamento concreto, sanzionabile penalmente o contrattualmente, la Fiat pretende di licenziarmi per le mie opinioni politiche, liberamente e legittimamente espresse.
In ogni caso la prossima sentenza, ci farà sapere se per la magistratura di Melfi l’operaio che ha opinioni diverse dal proprio padrone compie per questo un reato che va punito col licenziamento.
In realtà, nonostante che nel primo pronunciamento sul 700 si è arrivati a sostenere che io e la mia famiglia possiamo tranquillamente campare, in attesa della sentenza di merito, con i quattro soldi di liquidazione che ho preso, spero che i giudici di Melfi non asseconderanno la pretesa della Fiat di licenziare tutti gli operai che hanno opinioni non gradite all’azienda.
Avigliano, 28/08/2008
Donatantonio Auria
Comunisti Uniti: leviamo qualche puntino dalle “i”. Una pacata risposta all’Ernesto
Scritto da Francesco Fumarola
La rivista de “L’Ernesto” torna, nella sostanza, a parlare dell’Appello Comunisti Uniti dopo circa sette mesi di silenzio e lo fa con un curioso articolo redazionale dal titolo “Comunisti Uniti: mettiamo qualche puntino sulle ‘i’ “. I primi sette mesi sono decisivi per qualunque forma di esperienza sociale: per esempio, è assai probabile che se un marito, con la scusa delle sigarette, parte all’improvviso per le Americhe, è assai probabile che al suo ritorno a casa vi trovi l’avvocato di famiglia (e non solo per il divorzio). Ma, si sa, le regole ammettono le eccezioni. Nella politica italiana non è mai troppo tardi ed i nostri politici (di qualunque schieramento essi facciano parte) vanno a nozze con la parte del sofista chiacchierone che tenta di convincere qualcuno della giustezza di un vuoto di presenza prolungato. Alla peggio si può sempre dare la colpa alla fase (maledetta o benedetta, a seconda delle volte e delle, ahinoi, giravolte) e alla strategia del saggio attendismo. Anche su questo, non v’è dubbio: si può sempre spiegare tutto con la scusa di avere aspettato un secondo, un minuto, un mese (anche sette) di più per semplice “precauzione”. I fatti, oggi come oggi, sono “liquidi” ed è bene non avere fretta. Essere cauti: è questa la prima regola dei grandi burocrati.
Solo dopo accurati controlli (e sempre che sia tutto a posto) si può ripartire: “abbiamo scelto consapevolmente di ripubblicare l’Appello in questo[!] numero della rivista, ed il testo con cui l’area dell’Ernesto nel suo insieme (il suo coordinamento nazionale) vi aderì in modo unanime e dopo una discussione approfondita. Non lo facciamo per una sorta di meccanico continuismo: tante cose sono cambiate dalla sua data di pubblicazione, all’indomani del voto del 14 aprile”. Se si capisce questo schema di lavoro pacato e quasi da “buon padre di famiglia”, tutto, alla fine, riprende senso. Perfino i firmatari-carneviva, che avevano riposto la loro speranza di Unità nell’Appello e nel fare “ora e subito”, dopo essere stati scaricati ai bagni termali di Chianciano e Salsomaggiore, riscoprono che quanto possa abbagliare l’apparenza e riprendono colore: perchè mai(!) un compagno lascia da solo un altro compagno, soprattutto dopo avergli fatto firmare un Appello!
E perciò, come un grande direttore d’orchestra, l’Ernesto riprende a dettare i tempi alle maestranze (le lavoratrici ed i lavoratori). Dopo un primo tempo vivace che parla di Unità dei Comunisti, e che nell’articolo viene giustificato per rispondere ad un rischio imminente, non certo ad una necessità storica (basti leggere “era o non era, in quel contesto[sic], non solo lecito ma necessario e responsabile che, non solo l’ernesto, ma chiunque dentro il PRC avesse a cuore l’autonomia comunista del partito, si ponesse il problema di quali avrebbero potuto essere gli scenari qualora il congresso di Chianciano si fosse concluso in modo assai diverso, da come poi imprevedibilmente è avvenuto? E che cosa era giusto fare a quel punto?” per rendersene conto) ed un primo tempo lentissimo, anzi una pausa tattica di non-silenzio alla John Cage (che nel 1952 presentò la rivoluzionaria partitura 4'33” per cui “basta indossare un abito da concerto, giusto per entrare meglio nella parte dell'esecutore, e accomodarsi al pianoforte per quattro minuti e trentatré secondi, senza suonare alcunché. L'esecutore non deve fare assolutamente niente e il pubblico non deve fare altro che ascoltare, ascoltare la “musica” che viene creata dai rumori interni alla sala da concerto, bisbigli, colpi di tosse, scricchiolii vari, ed anche da quelli che provengono dall'esterno..”. “Sentivo e speravo di poter condurre altre persone alla consapevolezza che i suoni dell'ambiente in cui vivono rappresentano una musica molto più interessante rispetto a quella che potrebbero ascoltare a un concerto”. Cage voleva semplicemente dimostrare “che fare qualcosa che non sia musica è musica) si riparte di slancio, temprati dalla misura dell’assenza-presenza, per un finale (chi può dirlo?) magari in crescendo.
Un finale che vuole “avviare un processo di riaggregazione di una diffusa diaspora comunista che faccia perno su un processo di avvicinamento e in prospettiva di unificazione di PRC e PdCI, nel loro insieme e senza alcuna sollecitazione scissionistica, ma che non si esaurisca in essi”. Intanto i Comunisti Uniti, aspettando che l’Ernesto resuscitasse come Gesù, in questi mesi sono andati avanti. E’ stato preso sul serio il compito di “favorire il protagonismo delle oltre 6.000 compagne/i che vi hanno aderito” tant’è che nel Lazio e nelle altre regioni italiane si succedono senza sosta le riunioni allargate a chiunque voglia partecipare (con o senza tessera di Partito o gruppuscolo). L’11 Ottobre i Comunisti Uniti, tra tanti limiti, sono scesi pure in piazza. E che sembri pure meccanico continuismo: la storia, per gli oltre 6000 tra compagne/i che ad Aprile hanno firmato/promosso l’Appello sotto altri auspici che non fossero di riposizionamento interno-esterno delle varie burocrazie, non s’è mai interrotta.
Intanto ad Aprile si vota.
Rumors sempre più insistenti vogliono che il PRC correrà da solo e lascerà a piedi il PdCI di Diliberto. Sono solo rumors. E comunque, anche se la cosa si concretizzasse per davvero, questa, come direbbe qualcuno, è un’altra storia. Forse!
La rivista de “L’Ernesto” torna, nella sostanza, a parlare dell’Appello Comunisti Uniti dopo circa sette mesi di silenzio e lo fa con un curioso articolo redazionale dal titolo “Comunisti Uniti: mettiamo qualche puntino sulle ‘i’ “. I primi sette mesi sono decisivi per qualunque forma di esperienza sociale: per esempio, è assai probabile che se un marito, con la scusa delle sigarette, parte all’improvviso per le Americhe, è assai probabile che al suo ritorno a casa vi trovi l’avvocato di famiglia (e non solo per il divorzio). Ma, si sa, le regole ammettono le eccezioni. Nella politica italiana non è mai troppo tardi ed i nostri politici (di qualunque schieramento essi facciano parte) vanno a nozze con la parte del sofista chiacchierone che tenta di convincere qualcuno della giustezza di un vuoto di presenza prolungato. Alla peggio si può sempre dare la colpa alla fase (maledetta o benedetta, a seconda delle volte e delle, ahinoi, giravolte) e alla strategia del saggio attendismo. Anche su questo, non v’è dubbio: si può sempre spiegare tutto con la scusa di avere aspettato un secondo, un minuto, un mese (anche sette) di più per semplice “precauzione”. I fatti, oggi come oggi, sono “liquidi” ed è bene non avere fretta. Essere cauti: è questa la prima regola dei grandi burocrati.
Solo dopo accurati controlli (e sempre che sia tutto a posto) si può ripartire: “abbiamo scelto consapevolmente di ripubblicare l’Appello in questo[!] numero della rivista, ed il testo con cui l’area dell’Ernesto nel suo insieme (il suo coordinamento nazionale) vi aderì in modo unanime e dopo una discussione approfondita. Non lo facciamo per una sorta di meccanico continuismo: tante cose sono cambiate dalla sua data di pubblicazione, all’indomani del voto del 14 aprile”. Se si capisce questo schema di lavoro pacato e quasi da “buon padre di famiglia”, tutto, alla fine, riprende senso. Perfino i firmatari-carneviva, che avevano riposto la loro speranza di Unità nell’Appello e nel fare “ora e subito”, dopo essere stati scaricati ai bagni termali di Chianciano e Salsomaggiore, riscoprono che quanto possa abbagliare l’apparenza e riprendono colore: perchè mai(!) un compagno lascia da solo un altro compagno, soprattutto dopo avergli fatto firmare un Appello!
E perciò, come un grande direttore d’orchestra, l’Ernesto riprende a dettare i tempi alle maestranze (le lavoratrici ed i lavoratori). Dopo un primo tempo vivace che parla di Unità dei Comunisti, e che nell’articolo viene giustificato per rispondere ad un rischio imminente, non certo ad una necessità storica (basti leggere “era o non era, in quel contesto[sic], non solo lecito ma necessario e responsabile che, non solo l’ernesto, ma chiunque dentro il PRC avesse a cuore l’autonomia comunista del partito, si ponesse il problema di quali avrebbero potuto essere gli scenari qualora il congresso di Chianciano si fosse concluso in modo assai diverso, da come poi imprevedibilmente è avvenuto? E che cosa era giusto fare a quel punto?” per rendersene conto) ed un primo tempo lentissimo, anzi una pausa tattica di non-silenzio alla John Cage (che nel 1952 presentò la rivoluzionaria partitura 4'33” per cui “basta indossare un abito da concerto, giusto per entrare meglio nella parte dell'esecutore, e accomodarsi al pianoforte per quattro minuti e trentatré secondi, senza suonare alcunché. L'esecutore non deve fare assolutamente niente e il pubblico non deve fare altro che ascoltare, ascoltare la “musica” che viene creata dai rumori interni alla sala da concerto, bisbigli, colpi di tosse, scricchiolii vari, ed anche da quelli che provengono dall'esterno..”. “Sentivo e speravo di poter condurre altre persone alla consapevolezza che i suoni dell'ambiente in cui vivono rappresentano una musica molto più interessante rispetto a quella che potrebbero ascoltare a un concerto”. Cage voleva semplicemente dimostrare “che fare qualcosa che non sia musica è musica) si riparte di slancio, temprati dalla misura dell’assenza-presenza, per un finale (chi può dirlo?) magari in crescendo.
Un finale che vuole “avviare un processo di riaggregazione di una diffusa diaspora comunista che faccia perno su un processo di avvicinamento e in prospettiva di unificazione di PRC e PdCI, nel loro insieme e senza alcuna sollecitazione scissionistica, ma che non si esaurisca in essi”. Intanto i Comunisti Uniti, aspettando che l’Ernesto resuscitasse come Gesù, in questi mesi sono andati avanti. E’ stato preso sul serio il compito di “favorire il protagonismo delle oltre 6.000 compagne/i che vi hanno aderito” tant’è che nel Lazio e nelle altre regioni italiane si succedono senza sosta le riunioni allargate a chiunque voglia partecipare (con o senza tessera di Partito o gruppuscolo). L’11 Ottobre i Comunisti Uniti, tra tanti limiti, sono scesi pure in piazza. E che sembri pure meccanico continuismo: la storia, per gli oltre 6000 tra compagne/i che ad Aprile hanno firmato/promosso l’Appello sotto altri auspici che non fossero di riposizionamento interno-esterno delle varie burocrazie, non s’è mai interrotta.
Intanto ad Aprile si vota.
Rumors sempre più insistenti vogliono che il PRC correrà da solo e lascerà a piedi il PdCI di Diliberto. Sono solo rumors. E comunque, anche se la cosa si concretizzasse per davvero, questa, come direbbe qualcuno, è un’altra storia. Forse!
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